Mondo
Belgio: la letteratura inascoltata e il passato che non passa
Un Paese diviso, un malessere che viene da lontano. Un passato coloniale dietro l'angolo, un fascismo che è da sempre presente nella vita e nelle divisioni politiche di fiamminghi e valloni che, oggi, si confrontano con nuove enclave. La sofferenza del Belgio è radicata nella sua storia e la letteratura aveva già messo in guardia: senza fare i conti con il proprio, sporco, passato il futuro non sarà rose e fiori. I libri non salvano il mondo, ma almeno ce lo fanno capire
di Marco Dotti
Bisogna essere molto prudenti con le voci. Fanno presto a trasformarsi in verità, una specie di verità. Lo sanno bene gli abitanti di Alegem, paesino immaginario e apparentemente tranquillo delle Fiandre occidentali nel quale Hugo Claus ha scelto di ambientare De Geruchten, uno dei suoi romanzi più forti, quanto a impatto politico, e meglio riusciti, quanto a stile. Pubblicato ad Amsterdam nel 1996, tredici anni dopo il successo internazionale della Sofferenza del Belgio, di cui rappresenta una sorta di contrappunto tematico, il libro uscì senza troppo successo in Italia – complice anche la mancanza totale di apparati e contestualizzazione – nella collana “I narratori” di Feltrinelli, con il titolo Corrono voci. Per fortuna i libri non letti si possono sempre (ri) leggere. Farlo oggi, abbinando questa lettura a altri due libri fondamentali di Claus, La sofferenza del Belgio (sempre Feltrinelli) e Tracce (Crocetti) può darci qualche indicazione in più. Sul Belgio, sull'Europa e su di noi. Di Tracce e della Sofferenza del Belgio parleremo nei prossimi giorni, ora torniamo a Corrono voci.
Il dramma del ritorno: la decolonizzazione infelice
Nato a Bruges nel 1929, con oltre centocinquanta pubblicazioni Claus è non solo uno scrittore e un poeta straordinariamente prolifico ma anche, indubitabilmente, una delle figure più anarchiche, radicali e politicamente scomode della letteratura di area fiamminga. Traduttore da oltre sette lingue, compagno di strada di Christian Dotremont, Asgern Johrn e Pierre Alechinsky nel gruppo Cobra, autore di un numero imprecisato di sceneggiature – la prima è del 1957, per Naar de zee di Fons Rademakers – nonché direttore in proprio di film culto come Het Sacrament o De Verlossing, anche in Corrono voci Claus si serve di riferimenti, mai troppo impliciti in verità, ad alcuni luoghi comuni cinematografici (la fotografia di Blow-up o lo smarrimento dell'identità in Professione: reporter di Antonioni) e di una tecnica che, in qualche modo, risulta fortemente debitrice della sua pratica di regia e scrittura di scena.
Appoggiandosi a una base realista ma, al tempo stesso, come sua consuetudine, trasgredendola per fare ricorso a continui e repentini salti di tempo, luogo e registro di narrazione, Claus descrive l'infelice ritorno a casa di René Catrijsse, un giovane mercenario fuggito con i suoi compagni dal Congo di Patrick Lumumba, quando il lavoro sporco – formalmente rivolto alla protezione dei belgi intenzionati a rimpatriare dopo la dichiarazione d'indipendenza dell'ex colonia, il 30 giugno del 1960 – non serviva, non conveniva o forse non rendeva più; e l'appoggio agli irregolari da parte del governo di Bruxelles si stava allentando. Ufficialmente ricercato come disertore, ma sorvegliato e protetto dalla figura ambigua del “capo”, un folle drogato capace
tanto di sterminare per un'inezia decine di indigeni, quanto di mantenere oscuri rapporti con uomini delle istituzioni democratiche, Catrijsse ritorna a casa dopo tre anni di silenzio, lontano dalle brume di Alegem. Ad accoglierlo, la solita vita di provincia, gli occhi indiscreti e maliziosi dei compaesani, un padre sgomento, una madre che si illude di capirlo e le voci che danno il titolo al romanzo.
Corre voce che i soldati bianchi combattano tra di loro, uno contro l'altro, che laggiù non fate fuori solo i negri, ma che quando siete ubriachi vi sparate tra di voi
gli domanda la donna intuendo che quel figlio taciturno, oggetto di continue attenzioni morbose da parte degli avventori del negozio di famiglia, devastato nel fisico e nell'anima da un misterioso morbo contratto in Africa, altrettanto subdolo, ma forse meno letale “della cloaca della guerra”, è ormai diventato un uomo privo di scrupoli morali, capace di sgozzare il pollo rubato a un vicino o il primo passante incontrato per strada con la medesima indifferenza.
“Hai ucciso tanti negri col coltello?”, chiede premuroso il fratello, aggiungendo che, comunque, ancora poche settimane e verrà “il Giorno dei defunti, il giorno in cui le anime di tutti i morti, neri, bianchi, gialli o rossi trattengono il fiato”, prima che tutto si risistemi.
Come Louis Seynaeve, il bambino protagonista della Sofferenza del Belgio, che sognava di ammazzare le suore dell'istituto a cui il padre fascista lo aveva affidato, servendosi dell'arma del nemico, in quel caso “un taglia carte congolese”, Catrijsse – il cui nome proprio René, “il rinato”, suona a tutti come un maldestro presagio – vive una doppia vita notturna, incontrandosi nei boschi con un compagno d'armi, trafficando diamanti e opponendo il proprio silenzio alle “voci” che, a poco a poco, lo indicano come il responsabile di una misteriosa epidemia che sta sconvolgendo il Paese.
Il cannibalismo dei "buoni"
Il silenzio di quel corpo, più della “peste delle Fiandre” che sembra portare con sé, riapre le ferite mai chiuse del colonialismo (quando erano i neri ad essere accusati, oltre che di cannibalismo, di “appestare la corte di re Leopoldo”) e del collaborazionismo mentre col numero dei morti per l'infezione riaffiorano i fantasmi della pedofilia, della violenza familiare, della guerra civile e di una non meno prosaica speculazione edilizia. Le macchie che coprono René Catrijsse, la sua tosse, i suoi incontri sospetti con altri contrattisti inducono presto la comunità a interrogarsi sulla sua strana figura e sull'anomalo passato di sua madre, forse la vera responsabile di tutto, perché “venduta al nemico” e amante di un ufficiale nazionalsocialista. Una storia scomoda, sembra suggerire Claus, soprattutto per quella parte del Belgio che non visse certo con sfavore i giorni dell'occupazione, sperando che dietro la svastica sventolassero finalmente gli emblemi dell'indipendentismo fiammingo.
Il libro
Il romanzo è ambientato a metà degli anni sessanta. Réné, un uomo di una ventina d’anni che ha combattuto nel Congo belga prima di disertare l’esercito, ritorna nel suo villaggio natale nelle Fiandre occidentali, Alegem. Sul suo corpo e nella sua psiche sono impressi i segni di un passato violento e misterioso. Nessuno, neanche i suoi genitori, è particolarmente felice del ritorno di questo strano ragazzo. Quando un’epidemia mortale si abbatte sul villaggio, Réné diventa il capro espiatorio.
Sono il pettegolezzo e la sua forza dirompente – che a volte distrugge, a volte lascia tutto immutato – i veri protagonisti del libro. Tutto si basa su fantasie, supposizioni, indagini più o meno accurate, castelli in aria e piccole vendette private. Quello che viene fuori è l’inquietante anima di un classico paesino di provincia, che dietro la facciata apparentemente tranquilla e pacifica nasconde uno spirito marcio, pronto ad aggredire qualsiasi cosa turbi la sua routine.
L'autore
Hugo Claus (1929-2008), autore belga di lingua neerlandese, ha pubblicato romanzi, opere teatrali (una gli procurò una condanna alla prigione nel 1968 per aver messo in scena tre uomini nudi) e sceneggiature, è stato poeta, pittore (membro del gruppo Cobra nei primi anni cinquanta) e regista, ha conosciuto il successo internazionale con La sofferenza del Belgio nel 1983 (Feltrinelli, 1999) ed è stato insignito di vari premi. Proposto nel 1995-1996 dallo stato belga al Premio Nobel per la letteratura, ha vinto nel 1998 il prestigioso Premio Aristeion e nel 2000 il Premio Nonino. Ha lavorato con Alberto Lattuada e amava molto il teatro-canzone di Giorgio Gaber, a cui ha dedicato dei poemi.
Immagine in copertina: 23 marzo 2016, soldati presidiano l'aeroporto di Bruxelles (JOHN THYS/AFP/GETTY).
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