Economia

Becchetti: Fermare gli avvoltoi

L’economista analizza l’incredibile nuovo default argentino sottolineando cause e rimedi. Con un occhio particolare ai «fondi-avvoltoio, specializzati nel subentrare ai creditori dopo il default di uno Stato con il solo scopo di cercare di lucrare sull’infausto evento»

di Redazione

Il sistema economico dovrebbe essere al servizio della persona con un occhio particolare per gli ultimi e i più deboli. Senza assistenzialismi, sapendo che il bene di tutte le persone, anche degli ultimi, sta nell’essere messo in condizione di dare e di essere utili alla società. Il caso del default argentino è un esempio macroscopico di come l’interesse di pochi speculatori con le spalle ben coperte possa sovvertire un equilibrio faticosamente trovato tra uno Stato e la stragrande maggioranza dei suoi creditori.

Giustamente i sistemi fallimentari nazionali (soprattutto negli Usa con il chapter 11) sono orientati verso il sano principio di dare un’occasione di riavvio dell’attività produttiva alla parte più debole (il debitore fallito) proteggendolo dalle richieste dei creditori. L’incredibile vicenda dell’Argentina sembra stabilire che questo ragionevole principio etico non vale più, paradossalmente quando al posto di un creditore c’è un intero Paese con i suoi drammi sociali, le sue scuole e i suoi ospedali da finanziare e, dall’altra parte, un gruppo del tutto particolare di creditori: i fondi-avvoltoio, specializzati nel subentrare ai creditori dopo il default di uno Stato con il solo scopo di cercare di lucrare sull’infausto evento.

La storia è presto riassunta. L’Argentina (anche per suoi innegabili e ben noti errori di gestione delle politiche macroeconomiche) nel 2001 fallisce e chiede di ristrutturare il suo debito. Ottiene un accordo con il 93% dei creditori (anche tanti italiani, che avevano incautamente acquistato bond argentini) che accetta di convertire i vecchi bond in nuovi titoli che valgono il 30% dei precedenti. Chi accetta l’accordo ottiene un’indicizzazione alla crescita del Paese che consente gradualmente di recuperare parte del denaro perduto perché l’Argentina, priva del fardello del debito, comincia a crescere negli anni successivi al tasso dell’8% annuo. Un gruppo di “hedge fund” (chiamati non a torto fondi-avvoltoio) si inserisce nella vicenda acquistando a prezzi stracciati i vecchi titoli, non convertiti nei nuovi, dal 7% dei vecchi creditori che non accetta l’accordo, e decide di andare in causa contro lo Stato argentino. Il giudice americano Thomas Griesa dà ragione ai fondi-avvoltoio e stabilisce che essi debbano essere risarciti a prezzo pieno. Il problema non è neanche questo, ma la clausola che stabilisce, qualora essi vengano risarciti a prezzo pieno, che lo stesso debba accadere per coloro che avevano accettato l’accordo, cioè il 93% dei vecchi creditori.

L’intero piano di ristrutturazione a questo punto andrebbe in frantumi e l’onere per l’Argentina diverrebbe insostenibile. Buenos Aires rifiuta la sentenza ed è ora di nuovo in default. Anche se dichiara che non si tratta di un vero e proprio fallimento, perché ha le risorse per pagare il 93% dei vecchi creditori ai nuovi valori dei bond: i soldi sono depositati in una primaria banca americana, ma sono bloccati dal giudice finché non verranno soddisfatti i fondi-avvoltoio. Anche l’ipotesi di compromesso di un consorzio di banche argentine che acquista i titoli dei fondi avvoltoio (a prezzi per questi ultimi convenienti) e poi ovviamente aderisce all’accordo di ristrutturazione disinnescando la miccia, fallisce all’ultimo momento.

Tra le vittime dello stallo, sicuramente il 93% dei vecchi creditori che aveva accettato la ristrutturazione e oggi si trova anche con quel 30% del vecchio valore nominale bloccato e non esigibile, e con titoli che stanno perdendo valore sul mercato secondario. E l’intero Paese, che vede ritardare il giorno del suo ritorno sui mercati finanziari internazionali. Quanto agli “hedge fund”, in ogni caso hanno le conoscenze e le capacità per coprirsi le spalle, guadagnando anche dal fallimento dell’accordo, se si sono coperti con opportuni contratti derivati.

Quello che colpisce di più in questa vicenda, come in altre, è la totale mancanza di sensibilità di un certo mondo della finanza che pone in atto operazioni di bombardamento “invisibili”, ma non meno cruente di quelle cui stiamo assistendo purtroppo in questi giorni, e che mettono in ginocchio interi Stati. Se vogliamo un’economia e una finanza al servizio della persona sarà opportuno introdurre clausole che disincentivino i comportamenti speculativi imponendo come regola nelle ristrutturazioni dei debiti sovrani che, quando una quota di maggioranza sufficientemente ampia di creditori accetta un accordo di ristrutturazione, tale accordo debba imporsi anche ai rimanenti. Se questo aumenterà rischi e costi dei debiti sovrani, non importa, perché si tratterà in tal caso di una normale legge di mercato da accettare.

Qualunque investitore, quando compra un titolo obbligazionario, sa che esiste il rischio di non restituzione e di fallimento dell’emittente e tale rischio finisce nel prezzo e nel tasso pagato. In questo momento, poi, in cui i mercati sono inondati dalla liquidità fornita dalle banche centrali e i soldi non sanno letteralmente dove andare, gli effetti del secondo default argentino sono stati al momento impercettibili e così sarà anche in futuro se questa clausola di protezione degli Stati dai fondi-avvoltoio sarà saggiamente inserita. Ciò che conta è che, come nel fallimento privato, il principio eticamente superiore di cercare di far ripartire la parte più debole, anche quando si tratta di un intero Stato sovrano, sia salvaguardato.

Vengono in mente le parole di Francesco, il Papa argentino, quando nella Evangelii Gaudium afferma: «Finché non si risolveranno radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali della iniquità, non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema». E, a proposito del concetto di “globalizzazione dell’indifferenza” aggiunge: «Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al dramma degli altri né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete».

Se rischiamo di investire una persona con l’automobile, freniamo bruscamente perché abbiamo dinanzi a noi l’evidenza del fatto. Chi compie operazioni speculative davanti a un monitor, invece, oggi ha strumenti potentissimi per produrre enormi danni a grandi quantità di persone, e può “rimuovere” la sua azione perché dolori e drammi economici non sono visibili al computer. Ma la sofferenza e l’ingiustizia provocata sono reali e impongono di essere riparate.
 
da Avvenire.it del 1 agosto 2014
 

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