Formazione

Bauman, lo sguardo dei suoi 91 anni

È mancato il popolarissimo sociologo polacco nato il 19 novembre 1925. Il suo pensiero è stato un punto di riferimento in questi anni complicati. Ecco un’antologia recente di sue riflessioni su immigrazione, solitudine, amore. E su papa Francesco

di Giuseppe Frangi

È mancato Zygmunt Bauman. Nato a Poznan, in Polonia il 19 novembre 1925, aveva 91 anni. Una vita avventurosa, passata attraverso la militanza comunista, l’ostracizzione per via della sua origine ebraica, l’abbandono della Polonia dopo che gli era stata tolta la cattedra a Varsavia. Bauman negli ultimi anni aveva conquistato una straordinaria popolarità per la sua capacità di fornire chiavi di lettura accessibili a fenomeni come globalizzazione, consumismo, conflitti. Lo ricordiamo con questo piccolo florilegio di suoi pensieri, ricavati da interviste recenti (ad Avvenire, Repubblica, il Manifesto, Le Monde). Filo conduttore è un suo intento che ci piace condividere: «Provocare una fusione di orizzonti, invece di una fissione sempre più esasperata».

Un’idea di sociologia

Il rischio a cui ancora oggi è esposta la sociologia è quello di limitarsi all’autoreferenzialità, a trincerarsi nel gergo iniziatico degli addetti ai lavori che si parlano, prevalentemente di questioni astratte e quantitative, dimenticando che i loro veri interlocutori sono le persone e che il dialogo va imbastito e coltivato con loro, non nell’acquario dei sociologi.
Un sociologo degno di questo nome parla con la «gente», legge romanzi, guarda la televisione e non si limita a teorizzare insieme ai suoi colleghi. Mostra come la vita personale e la biografia individuale siano intimamente connesse agli eventi storici e ai processi strutturali e induce le donne e gli uomini a interrogarsi sul quesito fondamentale formulato da John Maxwell Coetzee nel suo Diario di un anno difficile: «di certo il mercato non l’ha fatto Dio – Dio o lo Spirito della Storia. E se lo abbiamo fatto noi, esseri umani, non dovrebbe essere possibile disfarlo e rifarlo in forma più accettabile?». È per questo che è necessario strappare il «sipario magico» di Kundera, come aveva fatto Cervantes con il Don Chisciotte, per sgombrare il campo dai pre-giudizi, dalle presunte verità che ci vengono ammannite quotidianamente dagli imbonitori che ci rendono sempre più ciechi e più schiavi, per recuperare nuove potenzialità umane dall’oscurità in cui erano sprofondate e allargare in questo modo il regno della libertà umana.

Noi e il “nuovo straniero”

Ormai il nostro mondo è multiculturale, forse irreversibilmente, a causa di un'abnorme migrazione di idee, valori e credenze. E comunque la separazione fisica non assicura quella spirituale, come ha scritto Ulrich Beck. Lo "straniero" è per definizione un soggetto poco "familiare", colpevole fino a prova contraria e dunque per alcuni può rappresentare una minaccia. Nella nostra società liquida, flagellata dalla paura del fallimento e di perdere il proprio posto nella società, i migranti diventano " walking dystopias ", distopie che camminano. Ma in un'era di totale incertezza esistenziale, dove la vita è sempre più precaria, questa non è l'unica ragione delle paure che scatena la vista di ondate di sfollati fuori controllo. Vengono percepiti come "messaggeri di cattive notizie", come scriveva Bertolt Brecht. Ma ci ricordano, allo stesso tempo, ciò che vorremmo cancellare.

Quelle forze lontane, oscure e distruttive del mondo che possono interferire nelle nostre vite. E le "vittime collaterali" di queste forze, i poveri sfollati in fuga, vengono percepiti dalla nostra società come gli alfieri di tali forze. Questi migranti, non per scelta ma per atroce destino, ci ricordano quanto vulnerabili siano le nostre vite e il nostro benessere. Purtroppo è nell'istinto umano addossare la colpa alle vittime delle sventure del mondo. E così, anche se siamo assolutamente impotenti a imbrigliare queste estreme dinamiche della globalizzazione, ci riduciamo a scaricare la nostra rabbia su quelli che arrivano, per alleviare la nostra umiliante incapacità di resistere alla precarietà della nostra società. E nel frattempo alcuni politici o aspiranti tali, il cui unico pensiero sono i voti che prenderanno alle prossime elezioni, continuano a speculare su queste ansie collettive, nonostante sappiano benissimo che non potranno mai mantenere le loro promesse. E poi alle aziende occidentali il flusso di migranti a bassissimo costo fa sempre comodo. E molti politici sono allo stesso modo tentati di sfruttare l'emergenza migratoria per abbassare ancor più i salari e i diritti dei lavoratori. Ma una cosa è certa: costruire muri al posto di ponti e chiudersi in "stanze insonorizzate" non porterà ad altro che a una terra desolata, di separazione reciproca, che aggraverà soltanto i problemi.

Solitudine e narcisismo

È abbastanza tipico sviluppare una dipendenza dalle innovazioni tecnologiche. Le mie figlie, da piccole, erano rimaste ipnotizzate dalla televisione allo stesso modo in cui oggi si subisce la fascinazione degli smartphone e degli iPhone. Ma la televisione una volta si guardava in compagnia. L’avvento del walkman, invece, ha già contrassegnato una sterzata verso il mondo individualizzato in cui viviamo, dove viene richiesto a ciascuno di trovare soluzioni individuali per i problemi globali di quest’era e dove, di conseguenza, si accentua la tendenza a rinchiudersi nel proprio bozzolo. Lo slogan con cui si promuovevano i walkman era: «Mai più soli!». I ragazzi, e via via sempre più adulti, da quel momento potevano andarsene in giro con le cuffie ad ascoltare la musica o un programma che facesse loro compagnia in modo permanente. Mail messaggio era doppiamente ingannevole perché già il fatto di affermare «Mai più soli!» presupponeva che fino ad allora fossero stati, appunto, soli, e soprattutto l’ascolto individuale diventava una sorta di guscio protettivo che li allontanava dalla possibilità di incontri con altre persone.
In sostanza, non è che non si fosse più soli: ci si sentiva non più soli. L’arrivo trionfale degli iPhone e dei social network ha ristabilito i contatti con gli altri, centuplicandoli, soltanto in apparenza, giacché questa modalità di relazione esalta il proprio narcisismo e non consente affatto di imbastire veri dialoghi. In fondo che cos’è un dialogo se non un confronto con qualcuno che la pensa diversamente da noi? Un esempio autentico di dialogo è quello tenuto da papa Francesco con Eugenio Scalfari. Diventato papa, Francesco è andato a parlare con un giornalista dichiaratamente ateo. Ne sono usciti entrambi arricchiti, come avviene quando si discute con qualcuno che la pensa diversamente da noi. Su Facebook si coltiva solo il proprio narcisismo.

L’amore non si compra

Il mercato ha fiutato nel nostro bisogno disperato di amore l'opportunità di enormi profitti. E ci alletta con la promessa di poter avere tutto senza fatica: soddisfazione senza lavoro, guadagno senza sacrificio, risultati senza sforzo, conoscenza senza un processo di apprendimento. L'amore richiede tempo ed energia. Ma oggi ascoltare chi amiamo, dedicare il nostro tempo ad aiutare l'altro nei momenti difficili, andare incontro ai suoi bisogni e desideri più che ai nostri, è diventato superfluo: comprare regali in un negozio è più che sufficiente a ricompensare la nostra mancanza di compassione, amicizia e attenzione. Ma possiamo comprare tutto, non l'amore. Non troveremo l'amore in un negozio. L'amore è una fabbrica che lavora senza sosta, ventiquattro ore al giorno e sette giorni alla settimana.

L'amore non è un oggetto preconfezionato e pronto per l'uso. È affidato alle nostre cure, ha bisogno di un impegno costante, di essere ri-generato, ri-creato e resuscitato ogni giorno. Mi creda, l'amore ripaga quest'attenzione meravigliosamente. Per quanto mi riguarda posso dire: come il vino, il sapore del nostro amore è migliorato negli anni.

Francesco, non prescrizioni ma speranza

Papa Francesco non ha bisogno delle mie domande. Ogni giorno egli se ne esce con risposte a domande che io sto ancora cercando, e con successo a metà, di articolare. In un altro dialogo con Stanislaw Obirek ( On the World and Ourselves, Polity 2015), il mio interlocutore ha spiegato così il saggio richiamo degli appelli di Jorge Mario Bergoglio: il papa dimostra “una certa empatia per l’umana fragilità e il peccato, e ancora di più, Francesco non eleva se stesso sopra di noi ma sta al nostro fianco”. Poco prima del settembre 1939, ovvero l’inizio della seconda guerra mondiale, lessi il libro di Emil Ludwig Figlio dell’Uomo. La storia di un profeta. Un racconto che mi impressionò moltissimo e sul quale mi ricordo di aver rimuginato per varie settimane, durante il mio viaggio attraverso la Polonia in fiamme e insanguinata. Ludwig, come ho sottolineato commentando la suggestione sopracitata di Obirek, assegnava all’eroe di questo racconto un dono che “ha spinto pescatori, artigiani, piccoli commercianti a riempire le case di preghiera per ascoltarlo quando arrivava da Nazareth. Le persone si accalcavano intorno a lui perché questo nazareno non portava loro un’altra litania di prescrizioni o normative, né prometteva tormenti infernali ai disobbedienti, ma annunciava la Buona notizia: egli portava la speranza”».

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