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Basta pezze, l’Europa prepari un piano trentennale per l’accoglienza
A un anno dalla strage al largo di Lampedusa, il direttore del Corpo italiano di soccorso dell'Ordine di Malta, presente nel mar Mediterraneo dal 2008, traccia la via per un "cambiamento necessario". E spiega nel dettaglio come avvengono le visite mediche ai profughi
“Ci vuole una pianificazione europea di lungo raggio, per esempio sui prossimi 30 anni di flussi migratori. Non basta più gestire l’emergenza, il numero dei morti è sempre più alto”. È preoccupato Mauro Casinghini, direttore nazionale del Cisom, Corpo italiano di soccorso dell'ordine di Malta. In occasione del primo anniversario del tragico naufragio del 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa, quando un barcone si rovesciò causando 366 morti tra adulti e bambini, Casinghini ha presenziato una tavola rotonda in cui mettere a punto nuove strategie per affrontare un dramma che, oltre a causare almeno 20mila morti dall’inizio delle ondate migratorie (e ben 2500 solo in questi nove mesi del 2014), non conosce fine in seguito alle guerre che si stanno diffondendo in Medio oriente e in vari zone dell’Africa.
Qual è l’impegno attuale del Cisom nel Mar Mediterraneo?
Dal 2008 a oggi siamo stati sempre presenti nell’area, vivendo di fatto tutte le ‘stagioni’ dell’emergenza, comprese le tragedie più grosse, naturalmente. In questo dramma di dimensioni colossali quello che facciamo noi è garantire un supporto sanitario sia nei porti d’approdo come Lampedusa sia all’equipaggio di tutte le navi coinvolte nei salvataggi. Avevamo iniziato con la guardia costiera, poi dallo scorso novembre, quando è partita l’operazione Mare nostrum, siamo presenti anche sulle navi della Marina militatre. Garantiamo assistenza medica 24 ore al giorno, grazie a un finanziamento della Ue e del ministero dell’Interno, con un equipe che oggi prevede due medici, due infermieri e un logista che ruotano e che si possono spingere anche nei casi di recupero più lontani, come avvenuto a volte a cento miglia dalle coste italiane, ovvero a quattro ore di navigazione.
Come avviene l’assistenza medica ai migranti?
La prima, delicata fase è il trasbordo dall’imbarcazione in difficoltà a quella di soccorso. Subito dopo capiamo chi lamenta problemi fisici, ovvero i bisognosi di primo soccorso: in media almeno il 30 per cento di ogni sbarco, che presenta nausea, emicrania, disidratazione. Nei primi sei mesi dell’anno abbiamo assistito 13500 persone, di cui 4500 con un triage completo effettuato sulle navi madri a cui poi è seguita una terapia per almeno la metà di essi. Per quanto riguarda i codici rossi, quindi i casi piùù gravi, li abbiamo portati direttamente al Poliambulatorio di Lampedusa oppure, quando necessario, con un elicottero negli ospedali della Sicilia.
Quali precauzioni mettete in atto per le malattie infettive?
L’attenzione è massima, naturalmente. Niente è lasciato al caso, ognuno viene visitato da persone che indossano mascherine, guanti e tute usa e getta proprio per evitare contagi. C’è da dire che in tutti questi mesi non si sono verificati casi gravi, per questo siamo molto sereni quando visitiamo i migranti. Nei rari casi di Tbc o scabbia, basta veramente poco per debellarla, per esempio con le cure oggi a disposizione per la scabbia è abbastanza una crema dermatologica. Per quanto riguarda l’ebola, ci sentiamo di dire che è impossibile che arrivi a bordo, perché il periodo di incubazione e sviluppo della malattia è talmente breve che un eventuale contagiato non riuscirebbe nemmeno a uscire dal paese da cui parte.
Dal lavoro sul campo, cosa ne pensate di Mare nostrum e di tutte le altre azioni in atto nel Mar Mediterraneo per affrontare le migrazioni?
Mi sento di sottolineare due aspetti: dal punto di vista operativo, l’impegno europeo è in una fase delicata, l’attività di Frontex plus sembra ridimensionarsi di giorno in giorno e questo ci preoccupa, perché ci chiediamo se la Ue saprà rispondere con i mezzi adeguati una volta che Mare nostrum non sarà più operativa come lo è stata finora. Il secondo aspetto è di politica generale: finora ognuno di noi ha messo pezze su un problema che a oggi non è stato ancora risolto. Bisogna quindi inizirare un ragionamento diverso, non solo sull’emergenza, che riguardi una pianificazione europea e globale per almeno i prossimi 30 anni, se non 50.
In che senso?
Quanto messo in atto finora in termini di cooperazione allo sviluppo e gestione delle emergenze viene superato dal cambiamento delle esigenze generali, ovvero del fatto che sono in forte aumento i profughi di guerra. L’intervento deve essere diverso, in primo luogo certamente si deve far di tutto per stabilizzare i paesi in conflitto, nello stesso tempo bisogna però già agire su chi arriva, o meglio con chi arriva: persone dotate di professionalità che devono essere valorizzate, in quanto sono state abbandonate solo per lo scoppio della guerra. Queste figure professionali possono essere molto utili da inserire nel nostro sistema di formazione ed emersione delle competenze, per poi essere in grado in un futuro si spera non troppo lontano di tornare nei propri paesi d’origine come cooperanti esperti.
Cosa significa la fine di Mare nostrum?
Che di punto in bianco spariranno cinque grandi navi e altre imbarcazioni minori che salvavano profughi nel Mediterraneo. L’obiezione, che ci può stare, è che tale presenza invoglia i trafficanti a imbarcare il più possibile profughi. In realtà, con o senza le barche, il disegno criminale di questi assassini è quello di svuotare le coste libiche dai profughi, che pagano la partenza ma spesso non l’arrivo, trovando la morte in mare. Quindi il probabile arretramento dell’azione navale con Frontex plus non disincentiverà tali persone a compiere i loro omicidi premeditati.
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