Ricerca&Salute
Basta con i “pazienti esperti”. Tutti vanno coinvolti
Per scongiurare il rischio di inequità nella partecipazione dei pazienti alla ricerca e alle decisioni, servono nuove forme di ascolto e coinvolgimento. Quello di paziente esperto è un concetto da rivedere per ottimizzare il contributo di tutti alla ricerca
La strada che porta al coinvolgimento dei pazienti nella ricerca, imboccata nel nostro paese piuttosto di recente, è ancora lunga e per questo sono preziosi i suggerimenti forniti da chi la pratica da più tempo. L’occasione per riflettere viene dall’intervento di alcuni pazienti canadesi sulla rivista scientifica Research Involvement and Engagement, che elenca quanto potrebbe andare storto nel processo di coinvolgimento dei pazienti. In particolare, i nodi vengono riassunti in quattro punti: invitare il paziente al tavolo di lavoro come mera pratica adeguamento alle richieste delle agenzie di salute; nutrire pregiudizi più o meno consapevoli verso i pazienti; non fornire loro un supporto (anche logistico) per favorirne la partecipazione; non riconoscere la vulnerabilità dei pazienti, il cui contributo è al contempo ritenuto spesso “soggettivo”, “emotivo”, “biased”, non rappresentativo o personale. L’articolo si conclude con un appello alla riflessione a tutte le figure coinvolte.
A raccogliere l’invito sono Paola Zaratin, direttrice della ricerca scientifica della Fondazione italiana sclerosi multipla (Fism), Usman Khan dell’Istituto di politiche Sanitarie di Lovanio e Guendalina Graffigna, direttore del Centro di ricerca EngageMinds HUB dell’Università Cattolica a Milano. In un commento al lavoro canadese, pubblicato sulla stessa rivista, affrontano quello che considerano uno dei fattori all’origine della mancata ottimizzazione del contributo dei pazienti, il concetto stesso di “paziente esperto”. I tre scrivono: «Sosteniamo l’importanza di garantire l’ampia inclusione di tutti i diversi tipi di “conoscenza esperienziale” che i pazienti possono apportare ed evidenziamo il rischio di un approccio scarsamente rappresentativo se guidato solo a selezionare pazienti con conoscenze e competenze relative ai meccanismi della ricerca scientifica».
Verso un coinvolgimento più ampio
Zaratin, Khan e Graffigna affermano che quando sono solo i “pazienti esperti” a essere coinvolti, la rappresentatività è a rischio, poiché questa partecipazione non rende scientificamente rilevanti e non include tutte le diverse esperienze dei pazienti. Proprio per questo, serve una nuova scienza del coinvolgimento, rivolta non solo ai pazienti, ma a tutti i cittadini. Questa nuova scienza consentirebbe di affrontare le sfide e le opportunità del valore riportato dai pazienti come impatto sulla salute, della medicina digitale e dell’intelligenza artificiale.
Serve un ascolto autentico
Per questo, però, servirebbe implementare nuovi sistemi di gestione della ricerca. «Paradossalmente oggi rischiamo di generare una preoccupante inequità nelle forme di partecipazione dei pazienti nella ricerca che a loro volta possono introdurre pericolosi bias nell’iter scientifico» considera Guendalina Graffigna. «Per rendere reale l’obiettivo di un engagement dei pazienti nella ricerca dobbiamo innanzitutto mettere profondamente in discussione le pratiche classiche di ricerca scientifica al fine di garantire autentiche forme di ascolto e coinvolgimento del sapere laico delle persone, in tutte le sue diverse forme. Nuovi strumenti di reclutamento e coinvolgimento, sempre più inclusivi e sensibili vanno sperimentati. Penso che sia necessario formare i ricercatori e i tecnici a un autentico dialogo con il sapere esperienziale dei pazienti, prima di (e oltre a) formare i pazienti a un sapere tecnico per renderli abili a dialogare con i ricercatori».
Foto di Gabrielle Henderson su Unsplash
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