Salute

Basaglia batte “Amici”

Successo per il film di Rai 1. Parla Peppe Dell'Acqua

di Sara De Carli

Fabrizio Gifuni ha studiato talmente tanto che alla fine, a tavola, Peppe Dell’Acqua ha dovuto spostare la conversazione sulla bellezza di Trieste e il castello di Miramare. «Ero quasi imbarazzato, mi sentivo sotto esame, con tutti quei riferimenti a Basaglia, Sartre e Foucault», ammette. E Dell’Acqua è tutto meno uno a digiuno di quel tris di autori, essendo stato di Basaglia un discepolo della prima ora.

Oggi dirige il distretto di salute mentale di Trieste ed è il consulente di C’era una volta la città dei matti, il film in due puntate sulla vita di Franco Basaglia in onda su Rai1 domenica 7 e lunedì 8 febbraio. La prima puntata è stato un vero successo, e con 5 milioni e mezzo di telespettatori ha battuto anche Amici.

Marco Turco, il regista, ha contattato Peppe Dell’Acqua a inizio 2008, dopo aver letto il suo libro Non ho l’arma che uccide il leone, sottotitolo «Trent’anni dopo, la vera storia dei protagonisti del cambiamento nella Trieste di Basaglia e nel manicomio di San Giovanni». Le storie che compaiono nel film, vengono da lì.

Com’è iniziata l’avventura?
Ci lavoriamo da inizio 2008, il regista era perfettamente consapevole della difficoltà della sfida, perché mettere in scena Basaglia significa toccare una materia incandescemte, che ha che vedere con la storia italiana e con un’area che continuerà sempre ad essere problematica, dialetticamente ruvida, tant’è che pone continuamente delle questioni, anche a 50 dall’inizio del lavoro di Basaglia a Gorizia. E poi è difficile raccontare una storia ricchissima di eventi e di eventi contradditotri, col rischio di banalizzarli. Più volte siamo stati in dubbio, momenti in cui il regista e gli sceneggiatori hanno erano sfiduciati, hanno detto “non ci riusciamo”.

È un’agiografia di Basaglia?
No, questo era il rischio che personalmente avevo più presente, quello di rappresentare un Basaglia-Padre Pio, di farne un santino. È un rischio che si è accettato, qualche volta lo si vede anche, a tratti c’è anche un Basaglia che lenisce il dolore, che è anche vero, però bisognava restituire anche la dimensione contraddittoria di Basagalia stesso.

Ci si è riusciti?
Ci sono risuciti il regista e gli sceneggiatori, nel senso che si è scelto di raccontare delle storie di persone, in un racconto corale, con cento attori protagonisti e centinaia di comparse: quella di Basaglia è una stria tra le altre, certo è molto pregnante, però sta nella coralità.

Com’è il Franco Basaglia interpretato da Gifuni?
Fabrizio (nella foto in una scena del film, ndr) si è molto documentato, ha studiato tantissimo, adesso è un esperto. Quando hanno girato qui a Trieste l’ho accompagnato a vedere i luoghi dove oggi continua l’avventura di Basaglia e abbiamo fatto un bel gioco, io lo presentavo a tutti come Franco Basaglia, come fosse un’apparizione. Per dire quanto abbia lavorato.  Abbiamo sicuramente guadagnato un bel testimone nel nostro lavoro di garantire i diritti dei matti e delle persone fragili. Quello che apprezzo di più è che nelle conferenze stampa lui continua a parlare dell’oggi, del dopo-Basaglia, come del senso che lui ha trovato in questo film.

Per quale tematica la trasposizione sullo schermo è stata più complessa?
Necessariamente, per non fare del buonismo, bisognava mettere in scena anche situazioni delicate, come quell’uomo che a Gorizia, a casa in permesso, ammazzò la moglie. Come si affronta il problema del rischio e della pericolosità di queste persone senza banalizzare in un modo o nell’altro? Senza dire “non è un problema” né “aiuto, è fuggito il matto”? Ecco, su questa scena ho discusso moltissimo con gli sceneggiatori, loro lo banalizzavano come un “vabbè ma tutti possono ammazzare la moglie”, la sceneggiatura è stata scritta quattro volte. È stato bravissimo il regista, perché la cosa è stata raccontata senza negare nulla, ma in una dimensione talmente umana che diventa molto vicino, molto comprensibile senza essere giustificata, si difenda dal rischio di mostrificazione. Alla fine è una delle scene che amo di più, anche se devo ammettere che tutto il film, a noi vecchi, ci communove un po’.

Qualche fraintendimento, qualche involontario stereotipo da correggere?
Una questione di organizzazione: sia a Trieste sia a Imola sono attivi alcuni gruppi teatrali di matti e io ho chiesto che alcuni di essi potessere essere selezionati come comparse, dopo un casting, e pagati come tutti. La produzione, con malinteso senso del pudore, non voeva farlo perché – sosteneva – “poi ci dicono che sfruttimao i matti”. Ma sono attori, lo fanno di lavoro, che importa se prima sono stati in manicomio, se hanno una storia particolare? Importa se uno viene dal Cile? Insomma, è stato un vero braccio di ferro, un momento critico. Alla fine hanno lavorato in questo film 50/60 persone con problemi di salute mentale e soprattutto a Imola, là dove si è ricostruito il manicomio di Gorizia, molti di loro hanno rivissuto davvero quelle situazioni, l’elettoshock, è stato un impatto emotivamente difficile. Però le riconoscerai queste persone, nel film: sono il valore aggiunto.

Cosa teme di più, adesso che l’Italia intera vedrà questo lavoro?
Temevo un po’ il giudizio degli eredi di Franco Basaglia, che erano restii: invece i figli l’hanno visto e sono molto contenti. Temo un po’ quel che diranno i miei colleghi, perché a questo punto io mi sono assunto la responsabilità di portare a 8 milioni di persone una storia che magari loro mi diranno “l’hai letta come hai voluto tu”. E poi voglio dire una cosa…

Prego…
La sceneggiatura è tutta sbilanciata dalla parte dei matti, la famiglia e i famigliari o non ci sono o sono rappresentati quasi come una controparte: questo verrà notato, tuttavia penso che sia stata una buona scelta, non perché le cose stanno sempre così ma perché qui si è voluto dare la parola a chi questa storia l’ha vissuta sulla propria pelle, l’assenza o la protervia della famigli va letta in questo mdo, come dire questa volta sentiamo cosa hanno da dire loro.

Cosa spera che il film cambierà nella mentalità comune?
Io lo giudico come un’opera necessaria, quantomeno per la memoria. Queste operazioni servono anche a radicare una memoria che si rischia di perdersi, e questo è uno dei mali più dolorosi dei nostri tempi. Qui c’è tanto della memoria di un pezzo di storia ialiana, ma non un prodotto da Rai educational, spero venga fuori l’importanza del ricordare e dell’attualizzare le cose. In fondo si riportano sullo schermo parole belle, che abbiamo consumato, distrutto, abbandonato, parole di amore, di comprensione, di lotta, parole critiche.

Basaglia è morto nell’agosto del 1980, quest’anno sono i trent’anni della morte. Però in questo momento si discute anche molto di revisione della legge 180. Il film ha anche un significato politico, in questo senso?
Guarda, il direttore di Rai1, quando gli hanno chiesto perché lo ha fatto, ha detto «Perché molti sono distratti e non approfondiscono». Sul resto, io sono sicuro che non è in discussione proprio nulla, non c’è nessuno che ha forza, il coraggio e soprattutto la necessità di cambiare questa legge.

Una proiezione pubblica di C’era una volta la città dei matti, con il regista e gli attori, si terrà a Trieste venerdì 12 febbraio alle ore 20 al Cinema Ariston, all’interno dell’incontro internazionale Trieste 2010, per una rete mondiale di salute comunitaria, in programma dal 9 al 13 febbraio (info: www.news-forumsalutementale.it)

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