Economia

Baretta (Mef): «Grazie ai fondi UE disegniamo un altro New Deal»

L'Europa «è stata all'altezza della sua storia», ha dichiarato in Senato il presidente Conte. «Ora tocca a noi, ma serve tutta la cultura del Terzo settore, affinché i fondi diventino progetto di inclusione e sviluppo»: lo spiega il sottosegretario all'economia Pier Paolo Baretta in questa intervista

di Marco Dotti

Fondi importanti che, secondo molti osservatori, segnano una svolta nelle politiche europee di sostegno e sviluppo. Parliamo pacchetto economico varato dal Consiglio Europeo. All'Italia, secondo le prime stime, andrebbe il 28% dei fondi: circa 81 miliardi di euro di sussidi a fondo peduto, oltre a 127,4 miliardi di prestiti.

Ne parliamo con il sottosegretario all'economia Pier Paolo Baretta, per capire come questi fondi impatteranno sulle realtà sociali, oltre che economiche del nostro Paese.

Crescono i bisogni delle famiglie, aumentano le problematiche economiche e finanziarie di imprese e organizzazioni sociali. Al tempo stesso, l'Europa si appresta a finanziare un piano di investimenti che potrebbe rovesciare le carte in tavola. Vede spazio per un new deal?
Il fatto che questo spazio sia una necessità è chiaro soprattutto dopo quanto è successo in questi mesi, mesi che lasceranno il segno non di breve periodo: o c'è una nuova visione anche dello stato sociale e del welfare oppure è chiaro che si farà fatica a immaginare di ricominciare bene.

Il fatto che dentro la crisi si sia sentita forte la presenza uno Stato – vado quindi ben oltre il concetto di governo – che ha affrontato i problemi, cercando di dare risposte alla situazione, è un dato di fatto. Ed è la dimostrazione che la linea è quella su cui stiamo ragionando. Ma questo spazio per un new deal non è solo una visione, è anche un'opportunità. In Europa è passata l’idea che ci si deve occupare di queste questioni è una battaglia vinta e ci troviamo non più a discutere del “cosa”, ma di “quanto”, e questo libera opportunità e risorse. Bisogna però utilizzare questo spazio.

Diamo qualche numero?
Ricordiamo che l'Italia ha già 35 miliardi di fondi europei da spendere. Cominciamo a partire da quelli e decidiamo dove li orientiamo. A questi si aggiungono quelli del Recovery Fund che sono il risultato del negoziato. Tra i soldi dello SURE, la cassa integrazione europea, i soldi senza condizioni per la sanità e i 170 miliardi del Recovery Fund… siamo davanti a un'occasione storica straordinaria e guai, davvero guai a non utilizzarla in positivo. In quest'ottica, proprio tenendo conto che avremo di fronte un periodo difficile dal punto di vista economico e sociale, questa occasione per disegnare un new deal è fondamentale. Guai a perderla.

I soggetti del Terzo settore hanno avuto un ruolo cruciale nel fuoriuscire dalla fase più acuta della crisi, mitigando impatto sociale e intervenendo là dove Stato e istituzioni non riuscivano, ma in sinergia con queste. Crede si stia riconfigurando, al di là di certe polemiche su un «nuovo statalismo» anche la relazione fra Stato e soggetti della società civile?
Se il punto di partenza è che nessuno deve essere abbandonato e nessuno deve essere lasciato solo, non c'è dubbio che questa integrazione tra il ruolo del pubblico e il ruolo di un privato sociale, che abbia comunque la responsabilità di sentirsi coinvolto nella gestione della cosa pubblica, è la risposta migliore da dare. Questa sinergia consente allo Stato di esprimere al meglio le sue potenzialità, ma anche di raggiungere situazioni che altrimenti, se fosse affidato tutta la gestione solo pubblica, sarebbero difficili da realizzare. Forse la cosa da valutare con più determinazione è che, tramite il Terzo Settore, è possibile un coinvolgimento forte a livello territoriale. I piani di intervento di cui stiamo parlando in vista di un new deal che ci traghetti fuori dalle criticità di questi mesi vanno tarati, costruiti, misurati in una prospettiva molto legata al territorio. L’emergenza del Covid-19 ci ha mostrato quanto abbiamo bisogno di “prese” sociali sul territorio per rendere efficaci i nostri interventi e per dare forza ai nuovi assetti dello stato sociale.

I piani generali sono fondamentali, ma la loro applicazione si gioca nel territorio: per questo non possiamo prescindere da una sinergia tra soggetti del Terzo settore e Stato, ma questo non configura certo un ritorno dello “statalismo”, casomai è un modo efficace per gestire la complessità. C’è dunque ulteriore valore in questa sinergia, oltre al valore dello stato sociale, ed è l’idea che una società complessa si governa solo con una forte interazione tra le varie strutture e i corpi intermedi. I corpi intermedi sono il completamento di una visione della cosa pubblica: è difficile immaginare di governare la complessità senza queste integrazioni. Il Terzo settore è strategicamente rilevante per il Paese.

All'interno di questo «ruolo attivo» dobbiamo però constatare una spaccatura: un pezzo del Terzo settore, quello più impegnato sul campo, si trova ora in una fase delicatissima di ricomposizione. Un altro pezzo, costretto a restare fermo nei mesi del lockdown, pur (giustamente) beneficiando di un sostegno economico da parte del Governo si trova a dover ripensare, con la ripresa della propria operatività, anche al proprio orizzonte pratico e di senso. Queste due velocità impatteranno inevitabilmente sul nostro sistema di welfare. Ma questa doppia criticità apre anche a un'opportunità inedita, ben colta dal social economy action plan della Commissione europea: il Terzo settore potrà rispondere alla crisi, anche alla sua crisi, attraverso modelli ibridi di organizzazione…
L'organizzazione sociale che stiamo di cui stiamo parlando, ovvero una visione generale di new deal, con uno stato sociale rinnovato ma che abbia un forte radicamento – direi quasi una ripartenza dal territorio in una integrazione pubblico privato – prevede che ci sia un ruolo crescente anche per le strutture intermedie e per il Terzo settore.

S davanti a un'occasione storica straordinaria e guai, davvero guai a non utilizzarla in positivo. In quest'ottica, proprio tenendo conto che avremo di fronte un periodo difficile dal punto di vista economico e sociale, questa occasione per disegnare un new deal è fondamentale. Guai a perderla

Pier Paolo Baretta

Lo Stato da solo non arriva dappertutto e, in questo progettualità, io vedo prospettive importanti che vanno hanno costruite: anche il Terzo settore deve assumere questa come una propria visione. Il Terzo settore non è una marginalità o una nicchia. Il Terzo settore è un modo di interpretare l'idea di stato sociale in una forte collaborazione. Da questo punto di vista la sua risposta alle criticità interne ricadrà inevitabilmente sulla risposta che sapremo dare alle criticità del sistema Paese.

Recentemente, il professor Mario Calderini del Politecnico di Milano ha scritto: «una volta riconosciuti i soggetti di Terzo settore all’interno degli interventi a sostegno dell’economia, ora la grande sfida è quella di immaginare il Terzo settore come un soggetto attivo e un protagonista delle politiche industriali del nostro Paese». Che cosa ne pensa?
La risposta è la democrazia economica. La risposta è una visione anche del mercato, visione nella quale la democrazia non è concepita unicamente come democrazia politica. Diritti sociali, individuali, politici più diritto alla democrazia economica, ovvero alle forme attraverso le quali la costruzione del rapporto d'impresa tra produttore imprenditore e lavoratore trova una nuova sintesi.

Ovviamente, questo non nega il conflitto, ma presuppone un principio ulteriore, di democrazia economica, appunto, che concorre affinché si trovino regole che consentano di condividere e di poter essere protagonisti anche del modello di crescita e di sviluppo. Come Stato dobbiamo fare un passe avanti, unendo le forze politiche e quelle economiche e sociali, in primis il Terzo settore, che oltre che forza sociale è forza economica, devono trovare un modo per lavorare insieme a un nuovo modello di crescita e sviluppo. Il Terzo settore è una realtà così ampia nella gestione dei processi economici che la risposta alla crisi, in termini di democrazia economica, non può che venire dalle visioni e dalle competenze che si sviluppano in quest’ambito. Certamente, la strada da fare è ancora molta, ma in questi anni sono stati fatti importanti passi avanti: pesiamo al sistema della cooperazione di produzione o al sistema della cooperazione di servizi.

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Pensiamo anche alla formula – che non è propriamente Terzo settore, ma che ci si avvicina – di quegli investitori istituzionali che sono i fondi pensione. I fondi pensione sono soggetti che, gestiti insieme da impresa e rappresentanti dei lavoratori, ormai sono una potenza economica ed è bene che investano in ipotesi di sostegno anche industriale ed economico del Paese. Quindi quello che io sostengo è che ormai tutte queste forme non più parte di una concezione di vecchio stampo: il capitalismo è una cosa e poi ci sarebbe il resto fatto di brave persone, tra cui il Terzo settore. Il mondo ha preso una piega diversa e ibridarsi è una necessità strategica.

Una terza via?
Oggi c'è una forma diciamo di evoluzione del sistema capitalistico che è dato dall'insieme dell'economia del dono, dalle strutture del terzo settore alle strutture dei fondi pensione… C’è un mondo sociale che ha una rilevanza economica anche quantitativa importante ed è bene che sia protagonista a tutto tondo di un’idea di sviluppo-Paese.

Non crede che il nostro Paese, proprio per la ricchezza e la tradizione dei suoi corpi sociali e intermedi, possa mettersi alla testa un’operazione di costruzione di filiera che riconnetta bisogni, tecnologie, modelli imprenditoriali in evoluzione (pensiamo all'impresa sociale), finanza etica e forme ibride di impresa?
L'Italia ha delle carte originali in mano. Prima di tutto perché l'Europa è una parte del mondo dove nonostante tutti le crisi le difficoltà l'idea di stato sociale e di welfare e di economia sociale di mercato è presente, rispetto al modello anglosassone. Tra le varie cose che l'Italia deve fare per riprendere il suo ruolo nel mondo è quello di essere come dire capofila di questo. Negli ultimi mesi siamo stati capofila nella trattativa europea, che sta dando i suoi frutti in base alla parola d’ordine «nessuno si salva da solo».

La strada che si apre, ora, è in discesa. Ma la discesa – lo sanno bene i ciclisti – è sempre più difficile…
Ma a questo punto dobbiamo metterci un pezzo in più e lo possiamo fare attraverso anche buone pratiche che il Terzo settore porta in dote all’Europa e al Paese. C'è una responsabilità che il nostro Paese ha per la sua tradizione culturale. Tradizione che è quella di poter dare indicazioni per rafforzare l’idea di Europa sociale che è la svolta vera. In questo senso, spenderemo bene le risorse che l’Europa ci mette a disposizione se sapremo dar seguito al cammino intrapreso: democrazia economica, Terzo settore attivo, dialogo con i territori e visione di sistema.

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