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Bangladesh, Rana Plaza 10 anni dopo: la metà dei lavoratori sopravvissuti è disoccupata

Una ricerca condotta da ActionAid rivela le difficoltà che ancora oggi vivono i sopravvissuti al crollo in campo lavorativo, sanitario ed economico. In Italia, con la campagna “Impresa2030”, l’organizzazione chiede una Direttiva europea che imponga alle imprese di tutelare i diritti umani e l'ambiente. Il testo in discussione Commissione Affari Legali il prossimo 24 e 25 aprile

di Redazione

Il 24 aprile 2013 per un cedimento strutturale crollava il Rana Plaza, un complesso commerciale di otto piani a Dacca, in Bangladesh. Le vittime accertate, in gran parte donne impiegate nel settore tessile, furono 1.134 mentre i feriti estratti dalle macerie oltre 2.500. Si è trattato dell’incidente industriale più grave dopo la fuga di gas a Bhopal, in India, nel 1984, in un paese forte esportatore di prodotti fast fashion in Europa e negli Stati Uniti. In Bangladesh, il settore tessile-abbigliamento rappresenta infatti la quasi totalità (81,16%) dell'export del Paese, contro il 78,2% di dieci anni fa. Mousumi quel giorno era al lavoro, al sesto piano, ed è rimasta intrappolata sotto le macerie, riportando gravi ferite. «I ricordi orribili di quelle tre ore sotto le macerie mi perseguitano ancora. Provo la stessa paura quando entro o mi trovo in un edificio. Mi chiedo costantemente se avrò mai più il coraggio di andare a lavorare in uno spazio chiuso», ha raccontato.

La ricerca

A dieci anni dal crollo, uno studio realizzato da ActionAid Bangladesh su 200 sopravvissuti, gran parte dei quali donne, ha evidenziato le conseguenze che ancora vivono, a partire dalle difficoltà di reinserirsi nel mondo del lavoro dato che il 54,5% di loro risulta attualmente disoccupato. Tra questi, ben l'89% è rimasto senza lavoro negli ultimi 5-8 anni. Inoltre, il 21% degli intervistati ha dichiarato di non riuscire a trovare un lavoro adeguato a causa soprattutto delle condizioni di salute fisica – come problemi respiratori, lesioni alle mani o alle gambe, problemi di deambulazione o problematiche agli occhi – che continuano a essere un ostacolo significativo alla ricerca e mantenimento di un’occupazione. Preoccupa anche la salute psicosociale che, nonostante la tendenza positiva segnalata nel corso degli anni, riguarda ancora una percentuale significativa (29%) di sopravvissuti, le cui condizioni anziché migliorare si stanno progressivamente deteriorando. Fra questi il 57,8% vive nella paura a causa dell'esperienza del crollo di un edificio mentre il 28,9% lamenta forti preoccupazioni per la propria salute e sicurezza. Infine, lo studio mostra la grave conseguenza che il crollo ha avuto sul reddito famigliare della maggior parte degli intervistati, insufficiente a coprire le spese familiari, a cui si somma la mancanza di risparmi su cui contare in caso di spese impreviste, come ad esempio quelle sanitarie. «Abbiamo indagato la situazione dei sopravvissuti del Rana Plaza mostrando come molti di loro stiano ancora lottando mentalmente e fisicamente. È molto preoccupante vedere che più della metà non sia riuscita a trovare opportunità economiche per andare avanti. Sono persone che hanno un disperato bisogno di sostegno per trovare mezzi di sussistenza alternativi e l'opportunità di vivere una vita dignitosa», dichiara Farah Kabir direttrice di ActionAid Bangladesh. L’indagine ha anche analizzato lo stato della sicurezza nelle fabbriche di abbigliamento in Bangladesh, intervistando 200 lavoratori attivi: il 93% ha espresso preoccupazione per la propria sicurezza sul posto di lavoro, il 60% ha evidenziato diversi rischi presenti nella propria fabbrica, tra cui problemi ai macchinari, ventilazione e illuminazione inadeguate. Il 19,9% ha riferito che le loro fabbriche non dispongono di attrezzature antincendio mentre il 23,4% ha denunciato la mancanza di uscite di emergenza. Risultati che non fanno altro che evidenziate quanto ancora deve essere fatto in termini di sicurezza e salute sul luogo di lavoro.

ActionAid fin dal 2013 lavora a stretto contatto con i sopravvissuti e le famiglie delle persone decedute fornendo sostegno e monitorando anno dopo anno le condizioni di salute e di vita di circa 1.400 persone per garantire loro una corretta riabilitazione, il recupero psicofisico e un reinserimento lavorativo. Molti di loro sono donne, che in questo paese asiatico rappresentano la maggioranza degli impiegati nel campo tessile. Lavoratrici raramente consapevoli dei loro diritti. Per queste ragioni ActionAid ha allestito dei Women’s Café, situati proprio accanto alle fabbriche di abbigliamento. Sono luoghi accoglienti e sicuri che offrono varie attività socio-culturali e forniscono anche informazioni sui diritti dei lavoratori, risoluzione delle controversie e, non da ultimo, consulenza e assistenza legale in materia di violenza e molestie sessuali sul luogo di lavoro. Complessivamente ActionAid sostiene 25 caffè, 17 a Dacca e 8 a Chittagong. «Il Women’s Café ci ha aiutato in vari modi, fornendo formazione, consulenza e sostegno finanziario. Di recente ho ricevuto una macchina da cucire e spero di avviare una piccola attività con questa macchina. Questo tipo di sostegno ci ha dato il coraggio di rialzarci e di essere consapevoli della sicurezza sul posto di lavoro», conclude Mousumi.

La campagna per una direttiva europea

Le imprese multinazionali, tra cui quelle del fast fashion, si trovano oggi a operare in tutto il mondo in un contesto di sostanziale impunità. Molte di loro sono coinvolte in devastazioni ambientali, violazioni sistematiche dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, espulsioni di popoli indigeni e sfruttamento del lavoro minorile. ActionAid a livello internazionale è parte della campagna “Justice is everybody’s business” che conta diverse declinazioni nazionali. In Italia è attiva la campagna “Impresa2030. Diamoci una regolata”, nata per chiedere una Direttiva europea che imponga alle imprese – dai giganti dei combustibili fossili e dell’agro-business a quelli della moda e dell’hi-tech – di dotarsi di politiche e comportamenti efficaci nel garantire il rispetto dei diritti umani e ambientali, prevenendo qualsiasi abuso collegato direttamente alle proprie attività economiche o a quelle dei propri fornitori. Il testo della Direttiva, sul quale è stato raggiunto in settimana l’accordo, verrà votato dalla Commissione Affari legali il 24 e 25 aprile, per poi essere portato in plenaria al Parlamento europeo a fine maggio.

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