Economia
Bandi, stipendi, formazione, contratti: i nodi del lavoro sociale
Dialogo a tutto campo con Stefano Granata, presidente di Confcooperative/Federsolidarietà ed Eleonora Vanni, presidente di Legacoopsociali. Una sintesi della doppia intervista che trovate sul numero del magazine di maggio intitolato "Lavoro sociale, lavoro da cambiare"
di Redazione
Da un lato la richiesta sempre più pressante di interventi sociali, dall’altro la sofferenza economica e professionale di tanti operatori già impegnati in prima linea. Una tenaglia che documentiamo in questo book, dentro la quale si trova schiacciato un pezzo importante della cooperazione sociale. Cooperazione sociale che costituisce di fatto un asse portante del nostro welfare universalistico, in particolare sui territori e – con le cooperative di tipo A – nei servizi di cura, assistenza e nel campo dell’educativa. Ma quanto può reggere un sistema essenziale per il Paese, che però poggia le basi su meccanismi salariali e di riconoscimento sociale tanto fragili? E come liberarsi da questo cappio che soffoca proprio chi dovrebbe assicurare servizi di prossimità e alta qualità? Abbiamo girato le domande ai presidenti delle due maggiori federazioni di cooperative sociali italiane: Stefano Granata per Federsolidarietà/Confcooperative (circa 6mila coop associate) ed Eleonora Vanni (circa 2.500 associati). Entrambi (foto) in queste settimane sono stati impegnati nel rinnovo del contratto nazionale del comparto.
Partiamo da qualche numero: un cooperatore sociale ad inizio carriera quanto guadagna e che tipo di aspettative può nutrire per il futuro?
Granata: Circa il 70% dei nostri lavoratori ha una laurea, quindi generalmente si tratta di persone più qualificate rispetto alla media del mercato del lavoro italiano. Il contratto nazionale della cooperazione sociale prevede 10 livelli. A livello di stipendio si va dagli inserimenti lavorativi da 800/900 euro al mese sino a 1.700 euro. A cui eventualmente possono essere aggiunti superminimi e indennità. In una cooperativa sociale, però, la media si attesta fra i 1.200 e i 1.400 euro al mese. Gli incrementi di carriera invece sono quasi inesistenti. L’unica mobilità possibile è assumere ruoli di responsabilità, come per esempio può essere un coordinatore di servizio. L’ordine di grandezza però non cambia: difficilmente nel nostro settore la proporzione fra gli stipendi più bassi e quelli più alti supera il rapporto di 1 a 3, anzi quasi sempre ci si assesta su 1 a 2. Il massimale di 1 a 8 indicato dalla legge sul Terzo settore è lontanissimo.
Vanni: Di fatto è così: un educatore, se rimane a fare l’educatore per tutta la carriera, a parte qualche piccolo scatto di anzianità continuerà a prendere queste cifre.
Stipendi difficilmente sostenibili, specie nelle grandi città. Come se ne esce?
Granata: Voglio fare una premessa. Oggi otto ragazzi su dieci che scelgono di impegnarsi professionalmente nel sociale lo fanno all’interno di una cooperativa o impresa sociale; è un patrimonio importante. Secondo dato: oltre il 70% delle coop sociali fattura grazie a commesse pubbliche, praticamente tutte le coop di tipo A e molte di quelle di tipo B che si occupano di inserimento lavorativo. Poi c’è un pezzo di quelle di tipo B che ha molto ridotto la “dipendenza” dal pubblico e sono quelle che stanno crescendo maggiormente in termini di fatturato, liberando risorse per investimento e remunerazione del lavoro.
Vanni: A questo va aggiunto un altro tema, spesso ignorato: quello della formazione. I percorsi scolastici e universitari non sono al passo coi tempi. Per come sono costruiti oggi i curricula non c’è spazio per gli strumenti informatici, che invece stanno diventando importantissimi per le professioni impegnate nei servizi residenziali o domiciliari. È un deficit da colmare.
Una decina di anni fa la cooperazione sociale ha provato a misurarsi nel mercato privato degli asili nido. Un “test” fallito. Quali le cause?
Vanni: Nel momento in cui sono venuti a mancare i contributi pubblici, la domanda di fatto è sparita. Un fenomeno che oggi rischia di replicarsi con le residenze per anziani. Il paradosso è che il Pnrr parla di territorializzazione della cura e dell’assistenza e noi invece fatichiamo a trovare infermieri, oss, osa, educatori da mettere nelle nostre strutture.
Granata: Nel sociale la domanda privata è molto debole, soprattutto per quanto riguarda i servizi socio-assistenziali, un po’ meglio (ma non troppo) va per quanto riguarda l’educativa. Il nodo è anche culturale. Il Terzo settore è ancora da molti identificato come impegno volontario e invece da noi lavorano professionisti a cui è richiesta una sempre maggiore competenza. Abbiamo tutti sotto gli occhi l’esplosione del fenomeno delle baby gang. Oggi chi fa educativa di strada? Quasi più nessuno. Educatori giovani ce ne sono sempre meno, e gli anziani non hanno le competenze per confrontarsi con fenomeni nuovi, diversi da quelli di 20 o 30 anni fa.
Non rimane quindi che la strada della fornitura di servizi al pubblico?
Vanni: Il problema è che il pubblico, anche per le medesime funzioni, applica al privato sociale tariffe più basse rispetto a quelle che valgono per le Pa….PER CONTINUARE A LEGGERE ABBONATI O ACQUISTA IL SINGOLO NUMERO CLICCANDO QUI
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