Welfare
Bandi o valutazione d’impatto, non è solo una sfida per il Terzo Settore
«Si tratta di una trasformazione culturale che non può essere realizzata solo dal non profit ma deve tenere conto del quadro sociale e politico attuale e del punto di vista di tutti gli attori coinvolti». Con l'intervento del responsabile dell’ufficio di raccolta fondi e partnership da fondazioni e istituzioni per i programmi di ActionAid in Italia ed Europa su Vita.it continua il dibattito dopo i contributi di Elisa Ricciuti, Giuseppe Guerini e Federico Mento sulla provocazione di Carola Carazzone sui limiti del modello dei finanziamenti a bando nel Terzo settore
Il dibattito aperto dall’articolo di Carola Carazzone di Assifero, seguito dai contributi di Federico Mento di Human Foundation e Elisa Ricciuti di Cergas-Bocconi, ci dà l’opportunità di affrontare una questione molto sentita nel mondo anglosassone, ma mai analizzata in forma aperta e approfondita nella realtà italiana.
La discussione verte, in estrema sintesi, sui limiti del modello dei finanziamenti a bando nel terzo settore, dove i costi di gestione bassi e la modalità da “progettificio” non permettono di avere un reale impatto sui problemi chiave dell’attuale società italiana.
Come ci suggerisce Carazzone, dobbiamo parlare chiaro e mettere in luce le dinamiche e gli interessi che hanno prodotto il cosiddetto modello del cosiddetto starvation cycle[1] se vogliamo davvero superarlo.
Le ragioni e gli interessi
Vogliamo quindi mettere in luce, alcune fra le cause più rilevanti della sopravvivenza del modello di finanziamento a progetto, con l’obiettivo di stimolare una riflessione senza pretese di esaustività.
L’ambiguità dei costi di gestione
I costi di gestione, oltre a non essere un indicatore né di accountability dell’organizzazione né di impatto del progetto, non sono catturabili in unica definizione perché mutano in base al tipo di azione, all’investimento nella qualità, valutazione e disseminazione dell’intervento ed anche secondo le capacità di valorizzare il volontariato e i contributi in natura. Paradossalmente, un progetto dove i costi delle attrezzature e del personale fossero coperti gratuitamente, avrebbe solo costi di gestione.[2] Sebbene questa ambiguità sia chiara a tutti, i costi di gestione rimangono un parametro semplice, quantitativo ed immediato che donatore e beneficiario possono utilizzare per rendere conto della loro efficienza, senza dover investire in azioni di comunicazione ben più complesse.
Il feticcio della fattura
Troppo spesso capita che il finanziatore svolga principalmente “il ruolo di ragioniere”, per citare l’articolo di Mento, chiedendo per esempio copia originale e trasferimento bancario per una ricevuta di pochi euro di un piccolo negozio in un remoto villaggio rurale africano o chiedendo tre firme in calce spedite per posta da tutti i partner. I controlli amministrativi sono infatti indubbiamente più semplici e meno cari di una missione in loco che preveda focus group e interviste con gli stakedholder nella fase finale e a 12 mesi dalla chiusura di un intervento.
La trasparenza e la correttezza amministrativa sono certamente fondamentali, ma possono e devono essere verificati più semplicemente e con minori costi, sia per il donatore che per l‘organizzazione implementatrice, così da lasciare energie per la valutazione degli elementi davvero trasformativi di un’azione.
L’infallibilità dei progetti
Concentrarsi sulla compliance amministrativa e sugli output di un progetto, invece che sugli outcome e sull’impatto, riduce i rischi di rilevare un fallimento. È difficile, ad esempio, che le 200 ore di formazione previste da un progetto di inserimento lavorativo non siano state realizzate, ma dimostrare che i destinatari abbiano acquisto veramente le competenze previste e che queste siano state utili per trovare un impiego è ben altra cosa.
Con questa lettura quantitativa rivolta agli output i progetti nel terzo settore – anche se sperimentali o ambiziosi – non falliscono mai perché non viene realizzata una vera e propria valutazione di impatto. Peccato che proprio nella condivisione dei rischi e nel riconoscimento del fallimento ci siano enormi opportunità di crescita sia per i donatori che per i beneficiari.
Un problema di coscienza
Infine, il modello del finanziamento a bando permette di garantire un livello minimo di trasparenza nella scelta del destinatario dei fondi. È vero che una gara aperta può essere uno strumento utile – soprattutto se accompagnata da un processo di co-progettazione fra donatore e implementatore e da una valutazione qualitativa che permetta un apprendimento reciproco – ma non è la panacea di tutti i mali. Infatti, aumentando la complessità ed il numero di attori, come sta accadendo in alcune call for proposal europee, la partecipazione ai bandi sta a poco a poco diventando una scienza esoterica per progettisti esperti senza riuscire a garantire sempre trasparenza della valutazione e qualità dell’azione.
Modificare il paradigma in una società a bassa fiducia[3]
L’attuale modello dei bandi va messo in discussione, ma lo si può fare solo tenendo conto del quadro sociale e politico attuale e del punto di vista di tutti gli attori coinvolti. Oltre alla relazione tra fondazioni e organizzazioni dobbiamo considerare la centralità della Pubblica Amministrazione, come già ricordato da Federico Mento, ma anche degli individui e delle aziende, perché sono al tempo stesso la nostra costituency, i nostri destinatari, i nostri alleati e i nostri finanziatori. In questo contesto, se vogliamo superare lo starvation cycle dobbiamo considerare che rivedere i costi di gestione significa toccare un nervo scoperto dove si annida la sfiducia della società verso il terzo settore. Il 67% degli intervistati dalla Charity Commission in UK sostiene che i costi di gestione delle organizzazioni sono troppo alti[4] e questi sono una delle ragioni del calo di fiducia nelle charities. A ciò si aggiunge la crescente diffidenza di una parte della politica verso il terzo settore: è facile ricordare la crisi della scorsa estate sull’accoglienza migranti in Italia,[5] ma anche la pressione dell’amministrazione Trump sul terzo settore statunitense. È quindi importante iniziare subito a rivedere il modello di finanziamento a progetto, senza volerlo eliminare, ma rafforzandolo e migliorandolo. Al tempo stesso è necessario dare spazio ad altre modalità di partnership e ad azioni di comunicazione e sensibilizzazione rivolte all’intero spettro degli attori sociali e politici.
Alcune idee per iniziare
Presentiamo ora alcuni spunti, degli stimoli operativi su cui iniziare a lavorare nel breve termine. Abbiamo deciso di non approfondire la dialettica fra piccole e grandi organizzazioni, ma riteniamo che tutte le future trasformazioni debbano tutelare la biodiversità del terzo settore italiano quando è una ricchezza e metterla in discussione quando la frammentarietà non permette di produrre l’impatto desiderato.
- a) Semplificare le procedure di presentazione e rendicontazione utilizzando una piattaforma unica e digitale per l’inserimento dei dati legali e amministrativi di base, che diventi gradualmente lo standard per il numero più ampio possibile di donatori. Si stanno muovendo in questa direzione, anche se con margini di miglioramento in termini di semplicità e flessibilità, la UE con il Participant Portal e FCISCon i Bambini con Chairos.
- b) Spostare il focus dalla compliance amministrativa alla piena accountability e alle competenze, anche immaginando standard comuni su open data come quelli sviluppati da charitynavigator o guidestar (in questo senso Open Cooperazione è una prima promettente esperienza italiana nella cooperazione allo sviluppo).
- c) Aumentare la flessibilità nella concessione di costi di gestione (es. la fondazione Ford ha deciso di raddoppiare gli overhead).
- d) Immaginare oltre ai bandi forme diverse di sfide e premi anche ad alto rischio (es. i challenge prizes di Nesta) incluso il sostegno a campagne ed azioni di advocacy di lungo periodo, così importanti se vogliamo che il terzo settore sia rilevante nella promozione e protezione dei diritti e della democrazia nel Sud e nel Nord del mondo.
- e) Creare collaborazioni pubblico-private di lungo periodo dentro o fuori dai bandi. Esistono già partnership strutturate e di lungo periodo che hanno superato la forma del bando. Oltre alle già citate fondazioni Oak e Ford, non dimentichiamo le esperienze dei framework programme della Cooperazione Spagnola, di DANIDA e SIDA: si tratta di punti di partenza che vanno studiati e calati nella specificità del contesto italiano.
- f) Lavorare con le associazioni di secondo e terzo livello per creare azioni congiunte di media partnership e sensibilizzazione di larga scala rivolte alle persone, alle fondazioni, alle aziende e alle istituzioni per promuovere la centralità dell’impatto rispetto ai costi di gestione. In questo senso le esperienze di Bond in UK e del Charity Defense Council[6] in USA andrebbero analizzate con attenzione.[7]
Dan Pallotta, attivista e fundraiser americano, ha detto brillantemente "If you want to raise money, you might decide to have a bake sale. You'll raise a certain amount and a very low proportion will go into your overheads. Or you can do something big."[8]
Pallotta ha ragione, ma uscire dalla logica del lavoro a progetti a costi ridotti è, come detto, un vero cambiamento di paradigma che non può essere realizzato solo dal terzo settore, ma deve essere una trasformazione culturale da difendere e promuovere riconquistando la fiducia e il sostegno di tutti gli attori sociali e politici.
*Tiziano Blasi, è il responsabile dell’ufficio di raccolta fondi e partnership da fondazioniistituzioni per i programmi di ActionAid in Italia ed Europa.
[1] “Enucleando tre elementi in relazione di reciprocità, in un circolo vizioso che inizia con le aspettative irrealistiche da parte dei finanziatori sui costi di gestione di un’organizzazione non profit cui consegue un adeguamento/travisamento dei costi generali da parte degli enti del terzo settore che, a loro volta, spendono poco e/o rendicontano meno di quanto spendono, rinforzando aspettative sbagliate e irrealistiche da parte dei finanziatori, perpetuando il mito che dagli enti del terzo settore ci si aspetta che facciano sempre di più con sempre di meno.”
[2] L’AFP del Canada ha fatto una buona analisi del mito degli overhead: http://afptoronto.org/wp-content/uploads/2015/12/R-16_Debunking_Charity_Overhead_Rates.pdf
mentre l’IFRC e la Norwegian Red Cross hanno commissionato uno studio molto interessante sulla complessità della valutazione degli overhead nel contesto umanitario http://coastbd.net/wp-content/uploads/2018/02/UROC.pdf. .
[3] Si riprende l’espressione inglese del low trust society utilizzata da The Guardian
https://www.theguardian.com/commentisfree/2017/jan/28/charities-low-trust-society-social-enterprise.
[4] “Across the whole public, 67% agree that charities spend too much of their funds on salaries and administration” https://www.gov.uk/government/uploads/system/uploads/attachment_data/file/532104/Public_trust_and_confidence_in_charities_2016.pdf
[5] In questo senso la relazione è chiaramente circolare come mostra l’impatto avuto sulla fiducia nelle ONG dopo gli attacchi della scorsa estate.
[6] Per approfondire la genesi e gli obiettivi di Charity Defense Council:
[7] Per approfondire la discussione su come comunicare i costi del terzo settore https://www.theguardian.com/voluntary-sector-network/2012/nov/15/publicising-spend-charitable-activities-disaster
[8] “Se vuoi raccogliere soldi, puoi decidere di organizzare una vendita di torte. Raccoglierai un certo gruzzolo e solo una piccola parte andrà ai costi organizzativi. O, in alternativa, puoi fare qualcosa di importante.” Vale la pena guardare il suo Ted Talk (sottotitoli in Italiano disponibili) https://www.ted.com/talks/dan_pallotta_the_way_we_think_about_charity_is_dead_wrong
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