Tra Stato e mercato

Banche, Becchetti: «Si parla solo di Risiko, mai di come lavorano»

Prima Unicredit e Banco Bpm. Ora Monte Paschi e Mediobanca. Di fronte ai nuovi scossoni del sistema creditizio italiano, il professore è molto netto: «Dobbiamo imparare a confrontare le banche non solo sulla dimensione ma, soprattutto, sulla base del loro apporto in termini di benessere ai risparmiatori, mutuatari, piccole e medie imprese»

di Nicola Varcasia

Se una banca dichiara di volerne acquistare un’altra, questa è sicuramente una notizia. Ma il punto vero è un altro: che cosa farà il nuovo soggetto? Con quale criterio vanno giudicati questi cambiamenti? Una domanda non neutra, soprattutto di fronte ai nuovi scossoni del sistema bancario italiano. Leonardo Becchetti, ordinario di economia politica all’Università di Roma Tor Vergata e promotore di buone pratiche con la rete Next, parte proprio da questo snodo.

Professor Becchetti, come valuta le ultime puntate del Risiko bancario italiano, prima Unicredit vs Banco Bpm e ora Montepaschi vs Mediobanca?

Valuto molto male il modo in cui sono raccontate dai media. Si parla solo di “Risiko” e si lascia intendere che la crescita dimensionale sia indubitabilmente un progresso. Il tema della funzione della banca o dell’istituzione finanziaria non entra proprio nel dibattito.

Dov’è l’errore?

Quando impareremo a confrontare tra loro le banche e le loro politiche non solo sulla dimensione ma anche e soprattutto sulla base di quello che apportano in termini di benessere ai vari portatori d’interesse (risparmiatori, mutuatari, piccole e medie imprese) avremo fatto un passo avanti importante.

A proposito di Mps, lo Stato è azionista, anche se ora dì minoranza, ed è di fatto tra i protagonisti della possibile scalata di un istituto di credito storico per l’Italia. Lo Stato banchiere ha davvero ancora senso?

Anche il qui, il tema dovrebbe essere spostato alle finalità dell’organizzazione. Una proprietà pubblica di una banca è senz’altro a rischio di “cattura politica”, anche se le maglie della regolamentazione oggi sono più strette. Ma attori importanti come Cassa Depositi e Prestiti testimoniano come una quota di proprietà pubblica sia indispensabile in molti casi quando si tratta di finanziare investimenti a basso rendimento ed alto rischio in infrastrutture che diventano abilitanti per consentire poi ai privati di investire su profili rendimento rischio per loro accettabili.

La politica aveva fatto dei passi indietro nella gestione del credito a questi livelli, c’è una regia nuova, è un cambio di passo?

Non penso si possa e si debba tornare indietro verso la proprietà pubblica su una banca retail, una banca che, a differenza di Cassa Depositi e Prestiti, lavora con normali clienti privati. E non credo accadrà. È anche vero che l’idea astratta che la nazionalità della proprietà non conti è un’altra estremizzazione non vera. Un paese come il nostro, come ogni paese, ha bisogno di capitali che si pongano l’obiettivo di sviluppare i nostri territori e che restino patrimonio indiviso delle comunità locali. Non è certo la mission di fondi senza volto che cercano solo rendimenti e non hanno nessun interesse nei luoghi in cui questi si realizzano.

In Italia abbiamo bisogno anche di soggetti diversi?

È questo, infatti, il ruolo delle banche di credito cooperativo ora riunite in due grandi gruppi che, come è noto, svolgono un servizio fondamentale di intermediazione del credito per le piccole e medie imprese. Non possiamo aspettarci la stessa cosa da grandi gruppi bancari massimizzatori di profitto e quotati in borsa per i quali i prestiti ai piccoli sono “inefficienti” perché garantiscono marginalità troppo basse, non al passo con la remunerazione delle azioni richiesta dagli azionisti.

Che riflesso potranno avere questi movimenti sulla capacità delle banche di sostenere l’economia reale? Dal risiko bancario in salsa italiana, che messaggio sta arrivando per i risparmiatori e gli attori sociali?

Lo dicevamo prima. Vorrei vedere il sistema bancario competere in proposte sulle condizioni dei mutui ai risparmiatori o alle opportunità di credito per le imprese del territorio. Di questo si parla pochissimo, dando per scontato che “più grande è bello” e si dimentica la lezione del 2007 che ci dice anche che grande è pericoloso se diventa “too big to fail”, troppo grande per fallire, aumenta l’azzardo morale e crea le condizioni per le grandi crisi finanziarie. Non è un caso che, da allora, le grandi banche siano regolate con molta più severità. Se è vero che la dimensione consente economie di scala e riduzione di costi medi, resta centrale capire il ruolo e le strategie che ciascuna banca si propone.

L’etica e il rapporto delle banche con i finanziamenti a settori controversi: è un argomento che troverà ancora spazio?

Il bisogno più profondo e insopprimibile dell’animo umano è quello di essere generativi. Per questo, soddisfazione e ricchezza di senso di vita crescono quanto più abbiamo impatto positivo sulle vite altrui.

Le banche di credito cooperativo, ora riunite in due grandi gruppi, come è noto svolgono un servizio fondamentale di intermediazione del credito per le piccole e medie imprese. Non possiamo aspettarci la stessa cosa da grandi gruppi bancari massimizzatori di profitto e quotati in borsa

Per questo la finanza, dove la rivoluzione della generatività e dell’impatto è arrivata, oggi include un trilione di masse di risparmio gestite da fondi impact (green o social) e poi fondi d’investimento etici, banche etiche, banche di credito cooperativo, microfinanza not for profit e molto altro. È la finanza che appassiona di più. Certo bisogna anche difendersi, ma qui siamo in un circolo vizioso.

Quale?

Il nostro “analfabetismo relazionale” sempre più diffuso sta riducendo la nostra capacità di risolvere conflitti e questo alimenta il bisogno di spese militari “difensive”. Sprecare risorse per farsi la guerra piuttosto che per risolvere i grandi problemi dell’umanità (povertà, emergenza climatica, malattie) non fa certo onore all’intelligenza del genere umano.

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