Politica
Banca Etruria, il casinò capitalism e l’escatologia dell’impersonalità
È davvero molto interessante l’intervista all’impiegato di Banca Etruria comparsa su La Repubblica a cura di Federica Angeli. È interessante perché raccontando semplicemente la realtà, interrogando i protagonisti si smarca dalla caciara di chi nel 2013, governo Monti responsabile economia del Pd Stefano Fassina, votò compatto l’Union Banking con il suo carico di pesantissime conseguenze (occhio dal 1 gennaio al ball-in, vd articolo) e oggi non si vergogna a far polemica politica o i savianismi che invece di far lo sforzo di capire e di spiegare scelgono la strada facile e da copertina di mettere in croce Maria Elena Boschi che con il problema delle obbligazioni subordinate c’entra come i cavoli a merenda.
L’intervista a Marcello Benedetti, un ex impiegato della banca Etruria di Civitavecchia che firmò il contratto delle obbligazioni subordinate acquistate da Luigino D’Angelo, il pensionato che si è tolto la vita per aver perso 110mila euro, ci fa invece capire quanto profondo sia il problema e di quanto chiami direttamente in causa noi oltre alle autorità di Bruxelles, Bankitalia, la politica, l’intervista a Benedetti ci fa render conto del degrado antropologico consumato in questi ultimi vent’anni.
Leggiamone un estratto.
Lo mise al corrente dei reali rischi che correva in questo tipo di operazione?
Gli occhi si inumidiscono. “Firmò il questionario che sottoponevamo a tutti, nel quale c’era scritto che il rischio era minimo per questo tipo di operazione”.
Una bugia scritta in un contratto?
“In realtà nelle successive carte che il cliente firmava, era presente la dicitura “alto rischio”, ma quasi nessuno ci faceva caso. Era scritto in un carteggio di 60 fogli”.
E voi impiegati non mettevate al corrente i clienti?
“Avevamo l’ordine di convincere più clienti possibili ad acquistare i prodotti della banca, settimanalmente eravamo obbligati a presentare dei report con dei budget che ogni filiale doveva raggiungere. L’ultimo della lista veniva richiamato pesantemente dal direttore “.
Ma lei nella sua filiale è ricordato per essere quello sempre in cima alla classifica dei report settimanali.
“Sapevo fare bene il mio lavoro. E quando mi resi conto che l’emissione delle obbligazioni subordinate era troppo frequente da parte della banca Etruria capii che era possibile un imminente fallimento. Mi venne in mente dunque di mettere al riparo alcuni clienti, tra cui appunto Luigino. Per cercare di far avere loro la liquidazione sia delle subordinate che delle ordinarie, proposi di fare una gestione di fondo. Ricordo che dissi a Luigino: “Non succederà mai niente alla banca, ma se dovesse in questo modo salvi i tuoi risparmi”. Ma lui non volle farlo: il suo problema era che voleva un rendimento semestrale cosa che la gestione del fondo non gli garantiva. Accettarono solo una quarantina di clienti, svuotai il comparto delle obbligazioni. Gli altri sono andati a finire come lui: hanno perso tutto”.
La versione integrale dell’intervista la trovate qui
L’intervista di Federica Angeli mi ha fatto tornare alla mente le cronache che nel 1961 Hannah Arendt fece come inviata del New Yorker delle 120 sedute del processo a Otto Adolf Eichmann, cronache poi riunite nel libro “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme” nel 1963. Un tenente colonnello, poco più di un funzionario che aveva coordinato il trasferimento degli ebrei verso i campi di concentramento come responsabile della sezione IV-B-4 dell’ufficio centrale della sicurezza del Reich.
Non era un capo Eichmann, era solo un funzionario responsabile di un importante ufficio. Alle accuse rispondeva “Non sono colpevole nel senso dell’accusa. Ho solo obbedito agli ordini dei superiori”. Ed è proprio questo che sconvolge Hannah Arendt, che scrive “mi sono sentita scioccata perché tutto questo contraddice le nostre teorie di male”.
La sua percezione di Eichmann è quella di un uomo comune, grigio, superficiale e mediocre. Un funzionario che si occupava pur sempre di “trasporti” e che sta dentro norme e leggi, condiscendente, zelante, ma del tutto irresponsabile e senza nessuna percezione di ciò che è giusto e sbagliato. Era una persona comune, una persona come tutti, come dice la Arendt ciò che si scorgeva in Eichmann non era neppure stupidità ma qualcosa di più negativo: l’incapacità di pensare.
Anche il funzionario di banca Benedetti, e con lui chissà quanti altri, è un uomo normale, obbedisce agli ordini, è accondiscendente al meccanismo premiale che i capi hanno disegnato, più schifezze vendete più siete bravi, conosce Luigino D’Angelo, sa benissimo che lo sta fregando e che gli sta vendendo un prodotto finanziario ad alto rischio, eppure firma tranquillo, tradisce la sua fiducia senza sussulti emotivi o morali. Queste sono le regole della banca, così fan tutti.
Vàclav Havel ne Il potere dei senza potere, avvertiva che i sistemi totalitari erano l’avanguardia della crisi globale della nostra civiltà che sarebbe via via avvenuta, una crisi il cui esito sarebbe stata una sorta di escatologia dell’impersonalità. Non poteva sapere che questo sarebbe avvenuto nell’era dell’individualismo compiuto. Sembra un paradosso affermare che l’escatologia dell’impersonalità si sia compita negli anni dell’individualismo, eppure è così. L’uomo senza più legami sociali e significativi è subordinato a un potere ipertrofico, anonimamente burocratico e impersonale, operante al di fuori di qualsiasi coscienza, capace di legittimare qualsiasi cosa senza mai toccare la verità delle cose.
Un potere che disumanizza e svuota il pensiero e la morale, sussume il privato e la nuda vita. Un potere che non riguarda più piccoli gruppi di dirigenti ovunque dislocati, ma che occupa e assorbe ognuno in modo che ognuno in qualche modo vi partecipa, anche solo col suo silenzio, un potere che nessuno detiene perché è lui che detiene tutti, i politici a Bruxelles o a Roma, i direttori di Banca, i funzionari o i clienti che vogliono magari guadagnare un po’ di più credendo che il denaro generi denaro, rischiando certo, ma staccando cedole semestrali. Come impone da troppo tempo il casinò capitalism.
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