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Dal Kosovo con passione: intervista a Fernando Gentilini

di Daniela Verlicchi

Da terra maledetta a germe d?Europa. Da buco nero a laboratorio di convivenza. Da rompicapo diplomatico a risorsa per l?Europa. I Balcani sono cambiati. Ma pochi se ne sono accorti. Mentre le diplomazie europee si interrogano sul loro futuro, albanesi, kosovari e macedoni stanno già iniziando a costruire l?Europa del domani, quella dei giovani, gli euroentusiasti per antonomasia. Nella mente di molti invece i Balcani sono gli stessi di dieci anni fa: quelli di Milosevic e di Isetbegovic, degli stupri etnici, degli scontri tribali.

Fernando Gentilini, diplomatico di professione e attualmente consigliere diplomatico aggiunto del presidente del Consiglio, i Balcani li conosce bene, se non altro perché è stato rappresentante di Javier Solana a Pristina. E questi pregiudizi proprio non riesce a sopportarli. Così ha scritto un libro, Infiniti Balcani. Viaggio sentimentale da Pristina a Bruxelles per raccontare un Paese nuovo agli europei. Sono i «suoi» Balcani, lo ammette: quelli che ha conosciuto ed imparato ad amare negli anni del suo incarico a Pristina. Ma sono anche quelli che ora chiedono di entrare in Europa, quelli che si trovano a 40 miglia marine dalla Puglia e che non possono più essere ignorati o peggio fraintesi.

«Pristina è più vicina a Bruxelles di quel che si immagina», scrive Gentilini nel libro. Quando gli europei inizieranno a rendersene conto?

Vita: Nel suo libro Infiniti Balcani lei insiste nel sottolineare i tratti comuni con l?Europa. L?Europa è una storia aperta e in questa storia i Balcani devono rientrare a pieno titolo. Invece, in genere continuiamo ad associarli a qualcosa di inconoscibile, oscuro. Come se lo spiega?
Fernando Gentilini: La cultura europea è un concetto che richiama le differenze e le diversità: forse, come concetto autonomo, non è mai esistito perché soggetto a continui cambiamenti. Negli ultimi anni però nei Balcani si sono rafforzati i valori europei: democrazia, libertà, rispetto di dignità umana, solidarietà, legalità, cultura del diritto. In questo senso i Balcani sono meno distanti. Il libro nasce proprio per raccontare questi nuovi Balcani: non quelli delle catastrofi e dei disastri degli anni 90 ma anche quelli che vogliono riscattarsi e riavvicinarsi all?Europa.

Vita: Insisto: nella mente degli europei, però, i Balcani continuano ad essere una «terra maledetta», il buco nero d?Europa nel quale tutte le tensioni precipitano?
Gentilini: Ma questa è una terra dell?immaginario: il fatto che siano rimasti mille anni sotto il dominio di Bisanzio e poi cinquecento sotto quello turco ha significato qualcosa. Per molti, sono più ignoti dell?Africa nera. A sud del Danubio, la cartografia è sempre stata incerta. Il vuoto geografico ha prodotto paura e incomprensione: non si capivano i costumi, le lingue, la geografia della regione. Ed è incredibile che tutto questo sia avvenuto (e ancora avvenga) a così poca distanza dalle nostre coste: l?Albania si trova a poco più di 40 miglia marine dalla Puglia. È ora di abbattere questi pregiudizi. E qualcosa, almeno dal punto di vista formale, è stato fatto: dal 2003 i Balcani sono ufficialmente candidati all?adesione all?Europa. Le porte sono aperte.

Vita: Non è solo una questione di immaginario. Gli anni 90 hanno rappresentato un momento di scontri e odi etnici drammatici. Questo passato recente ha aperto un solco tra Europa e Balcani?
Gentilini: Ritengo che si sia esagerato molto il ruolo dell?odio etnico e dello scontro religioso. I Balcani non sono una terra senza speranza. Io non credo che alla base delle guerre degli anni 90 ci siano l?odio o la diversità tra i popoli che abitano questa regione: credo che la causa sia piuttosto una cattiva politica di chi quella regione l?ha gestita, i vari Milosevic e Tudjman, che proprio di questo pregiudizio hanno fatto lo strumento di guerra. La teoria del tribalismo come origine della guerra non mi convince affatto: è vanificata dai secoli di convivenza pacifica di tanti popoli e di tante religioni proprio in Bosnia. Sarajevo era la Gerusalemme d?Europa: una città dove andavano tutti a trovar conforto. Si conviveva, c?era il 30% di matrimoni misti. E quindi la tesi che da un giorno all?altro la convivenza sia diventata impossibile per le differenze dell?etnia e le differenze religiose non sta in piedi.

Vita: Nel libro cita numerosi esempi di quel che era Sarajevo prima di Milosevic e di cosa è diventata dopo?
Gentilini: E lo faccio per sottolineare che l?odio non può spiegare la guerra, e soprattutto questa guerra. È come se si dicesse che l?Olocausto durante la Seconda guerra mondiale è attribuibile all?odio per gli ebrei. Tutti capirebbero che si tratta di una sciocchezza. E se poi davvero in Bosnia ci fosse stato questo odio etnico, questo rancore ancestrale, come avrebbero potuto serbi, croati ebrei e musulmani vivere fianco a fianco per così tanti anni? Mario Dottori, che è stato a lungo peacekeeper in Bosnia, mi ha raccontato la storia di un adolescente serbo che, in un piccolo paese non distante da Sarajevo, aveva per anni portato a spasso in carrozzina il suo migliore amico, un coetaneo musulmano disabile. Nel 1993, un giorno qualsiasi, apparentemente uguale a tutti gli altri, decise di uccidere il suo miglior amico lanciando la sua carrozzina contro le vetrine di un negozio. Come è spiegabile questo se non attraverso una precisa politica dell?odio? Mi pare che abbiano ragione quanti sostengono che è proprio nel fabbricare la teoria dell?odio tribale che il potere balcanico degli anni 90 ha dimostrato tutta la sua abilità. Le guerre jugoslave sono servite a perpetuare una classe dirigente e ad evitare che il crollo del comunismo nel resto d?Europa la travolgesse assieme ai suoi privilegi. Una classe dirigente che pur di restare al potere non ha esitato a strumentalizzare il pregiudizio etnico e religioso e a far esplodere il fanatismo, com?è avvenuto dal 1990 in poi.

Vita: Quanto ha inciso la mescolanza di culture e religioni nella percezione dei Balcani come entità nazionale? L?Europa ha paura di questa ?alterità??
Gentilini: La mescolanza di etnie e religioni all?interno dei Balcani è un elemento di complessità e tutto quello che è complesso e difficile da capire genera cautela. Nei Balcani ci sono delle faglie: ci sono lingue diverse, religioni diverse, alfabeti diversi, gruppi etnici diversi. Questo rende la conoscenza della regione difficile. Ma, all?inizio, in Europa è sempre stato scontro di civiltà. È un continente che è stato riempito di gente e di religioni che arrivavano da oltre Europa. E i nuovi sono stati accolti con diffidenza, almeno all?inizio. Poi però una volta inglobati non solo hanno metabolizzato l?idea e i valori ma ne sono diventati i più strenui difensori.

Vita: Succederà anche per i Balcani?
Gentilini: Basta uno sguardo alla carta geografica d?Europa per capirlo: blu dal centro dal Portogallo alla Bulgaria e poi una specie di buco nero al centro, i Balcani. Non è logico. Come fa un continente a non riunificarsi? Ecco perché noi, tutta la diplomazia italiana, considera l?ingresso dei Balcani in Europa come il completamento naturale dell?allargamento del 2004 e di quello alla Bulgaria e alla Romania di quest?anno. È inconcepibile che ciò non avvenga.

Vita: Non è esattamente unitaria la voce dell?Europa sull?indipendenza al Kosovo, ad esempio. E se ora si facesse marcia indietro?
Gentilini: Nei Balcani stanno avvenendo progressi in tutti i settori. Negli ultimi anni la regione è più stabile, più democratica, più prospera, c?è più benessere. Questo è un dato di fatto, incontrovertibile. Questi cambiamenti, però, sono tutt?altro che irreversibili. E soprattutto sono stati generati dalla prospettiva europea: riforme, cambiamenti, sviluppi positivi nei Balcani nascono dall?idea di integrazione europea. Se la prospettiva viene rimessa in discussione ci sono forti rischi per la stabilità della regione e per lo sviluppo. La formula è la stessa che è stata utilizzata nell?Europa centro-orientale nel 2004: «L?Europa in cambio di riforme». E sta funzionando bene anche nei Balcani. Perché funzioni fino in fondo, però, bisogna che l?Unione tenga fede alla sua parola.

Vita: Quanto incide il concetto di frontiera nel riconoscimento dei Balcani come parte dell?Europa? L?Europa non è abituata ad avere frontiere; nei Balcani, viceversa, le frontiere sembrano moltiplicarsi. Come conciliare queste tendenze?
Gentilini: Il Kosovo rappresenta l?ultima fase della disgregazione dell?ex Jugoslavia. Probabilmente per ricominciare a costruire occorre prima completare la disgregazione. L?Europa ci è arrivata col tempo a cancellare le proprie frontiere: è stato un processo di sacrifici e costi umani vasti. Le due guerre mondiali sono state fatte per le frontiere. I Balcani ci arriveranno, oppure no. Siamo abituati a considerare queste frontiere balcaniche, la voglia di disintegrazione, le crisi identitarie come un residuo del passato. Questa tesi è sostenibile solo se il progetto europeo andrà avanti: sarà il destino di questo progetto a dirci se le disgregazioni dell?ex Jugoslavia sono un residuo del passato o l?annuncio del futuro, un futuro fatto di campanilismi, identità, localismi, regionalismi, municipalità eccetera?

Vita: Lei scrive che l?Europa ha bisogno dei Balcani. In che senso ne ha bisogno?
Gentilini: L?Europa ha bisogno di entusiasmo, di desiderio di gioventù e nei Balcani ci sono tutte queste cose. C?è una voglia d?Europa che forse da noi non c?è più. Gli studenti delle università di Serbia, Montenegro, Kosovo conoscono l?Europa più dei nostri. Sono i giovani la forza propulsiva di questa regione. A volte si stupiscono per quello che da noi è ormai scontato: il fatto di essere titolare di diritti solo per il fatto di abitare in un Paese, per essere cittadini europei, è una novità enorme, incredibile. È vero che i vantaggi economici sono un incentivo nell?immediato, ma la novità è che nei Balcani al progetto europeo ci si crede davvero.

Vita: Ma cosa hanno insegnato i Balcani all?Europa?
Gentilini: L?Europa nei Balcani ha capito che se riesce a fare politica e a parlare con un?unica voce è in grado di incidere sulle vicende del mondo. Questo, nessuno stato membro può farlo da solo. Se dal 99 in poi tutte le crisi sono state controllate e sono rientrate e se si sono fatti progressi importanti, ad esempio in Macedonia, è perché l?Europa ha agito con un?unica voce, cosa che non era stata in grado di fare prima. Quando si notava la sua assenza sullo scenario internazionale.

Vita: Il Kosovo è un po? l?emblema di questa regione: lì le ferite sono ancora tutte quante aperte (odio etnico, stallo della diplomazia internazionale etc?). Basterà l?indipendenza a lenirle?
Gentilini: È l?ultimo grande nodo da sciogliere di tutto questo processo di disgregazione della ex Jugoslavia: l?unfinished business, come dice la diplomazia mondiale, l?ultimo tassello. In Kosovo, la comunità internazionale si rende conto che non è più possibile ignorare le aspirazioni indipendentiste della maggioranza dei kosovari, che sono albanesi e rappresentano il 90% della popolazione. Questo vale per la comunità internazionale nel suo insieme, eccezion fatta di Serbia e Russia. E questa eccezione ha fin qui impedito di chiudere il problema. Le cose nei Balcani non si risolvono sulla carta: non basta attribuire uno status. Né tanto meno basterà una risoluzione dell?Onu o una deliberazione dell?Unione Europea per fare del Kosovo un posto migliore.

Vita: D?Alema parla dell?indipendenza del Kosovo come di un nodo cruciale per l?Europa e per il multilateralismo? È d?accordo?
Gentilini: Il Kosovo è una sfida per l?Europa. Se l?Europa non riesce a mettere ordine prima di tutto in casa propria, perché il problema del Kosovo è un problema europeo, come può presentarsi e cercare di essere credibile quando cerca di risolvere i problemi in altre parti del mondo?


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