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Azzardo, le donne vittime due volte
Il gioco e la violenza sono strade che spesso s’intrecciano. Come spiega la psicoterapeuta Fulvia Prever dell’associazione And, che ha studiato il fenomeno: «In Italia c’è una classe di giocatrici completamente sommersa: sono le comunità di donne straniere».
di Anna Spena
Si dice spesso una bugia sull’azzardo: che abbia un carattere solo maschile. Invece è una patologia che, al pari di tutte le altre, non fa distinzione tra uomini e donne. Solo che delle donne si parla ancora pochissimo anche se, le cause che la scatenano, sono spesso tragiche. Nel prossimo numero di Vita "Exit Slot", in edicola da venerdì 5 febbraio, si racconta la sofferenza femminile davanti alle derive dell'azzardo.
«La connessione tra la violenza, il gioco d’azzardo e le donne è una connessione circolare», dice Fulvia Prever. «Non è solamente quanto la presenza nella anamnesi delle donne che hanno problemi di gioco è piena di violenza fisica, psicologica, fino all’abuso. Ma anche quanto poi il gioco stesso diventa una perpetrazione di violenza verso gli altri».
Quante sono in Italia le giocatrici patologiche?
In Italia non ci sono dati ufficiali (attendibili) sui giocatori d’azzardo. In linea generale si considera che i giocatori patologici siano compresi tra l’1% e 3% della popolazione. Si stima che un terzo di questo dato sia composto da donne. Anche se in realtà oggi le giocatrici sono quasi il 50% del totale dei giocatori. Ma questo dato non può considerarsi del tutto esaustivo. In Italia c’è una classe di giocatrici completamente sommersa: sono le comunità di donne straniere. Questo problema è in crescita esponenziale negli ultimi anni.
Qual è l’età media delle giocatrici?
È compresa tra i 48 e i 55 anni con picchi fino ai 75. Questo dato italiano è anche in linea con le statistiche europee.
E le donne più giovani non giocano?
Giocano anche loro. Il problema principale in Italia è che le donne che arrivano ai servizi, quelle che riescono a chiedere aiuto sono solo quelle più anziane. Le quarantenni, le cinquantenni, non si rivolgono quasi mai ai servizi di assistenza.
C’è una categoria di donne che secondo lei può essere esclusa da queste statistiche?
Non si troveranno mai giocatrici patologiche ventenni. Capita che le ragazze ventenni giochino ma non ne rimangono mai inviluppate come capita ai ragazzi.
Perché de donne anziane sono la fascia più a rischio?
Con il passare del tempo si rendono conto che il loro ruolo sociale sta diminuendo; i figli sono grandi, hanno smesso di lavorare, spesso non ci sono nipoti da accudire. Così iniziano a giocare…
Le famiglie come si accorgono del problema?
Quasi sempre perché i conti della pensione non tornano e iniziano a captare che qualcosa non va.
Diceva che le donne più giovani non chiedono aiuto…
Le donne più giovani ai servizi non arrivano quasi mai e se arrivano lo fanno sempre da sole. Le giocatrici non chiedono quasi mai aiuto per una serie di motivi: sono molto sole, non riescono a dirlo in famiglia che giocano e anche se lo dicessero nessuno si occuperebbe di loro. Mentre i giocatori arrivano ai servizi con la moglie, con la figlia, con la fidanzata, della serie “io ti salverò” tipo crocerossina, le donne non hanno un altrettanto marito, fidanzato, figlio che accetta che tu sei in difficoltà e ti accompagna per iniziare un percorso di guarigione. Quindi quella fascia di donne del ciclo di vita intermedio noi la vediamo molto poco.
Quali sono i “giochi” che creano immediatamente dipendenza?
Slot machine, gratta e vinci, bingo. Sono quelli della “dipendenza veloce”.
Ma sulle slot si impastano veramente tutte…
Esistono tratti comuni tra la patologia maschile e quella femminile?
Non mi sento di dire un no secco. Però un confine tra le due tipologie dipendenze esiste… Anche per questo durate le terapie la formazione di gruppi misti non sempre funziona…
In che senso?
I gruppi misti sono una situazione compressa per le donne che possono parlare molto in superficie di gioco ma non riescono a fare uscire mai il retroscena della violenza che poi, molto spesso, è il motivo principale che le ha spinte a giocare. Non parlano mai di queste cose davanti agli uomini, perché implica che l’uomo sia anche l’attore di questa scena della loro vita. Quindi se da un lato non possono trovare una sorta di solidarietà rispetto al problema gioco dall’altro non trovano solidarietà rispetto alle modalità dello schema dell’accesso al gioco.
Quindi la violenza è uno dei fattori scatenanti…
Sì. Ed emerge sia nella forma di violenza subita, sia nella forma di senso di colpa: la violenza provocata soprattutto ai minori, soprattutto ai figli, soprattutto agli altri membri della famiglia. Il gioco è anche violenza contro se stessi, è una forma di autolesionismo, perché tu ti fai del bene – il gioco è un modo per auto curarsi. A volte le donne arrivano ai servizi solo quando si trovano in una forte fase depressiva. Qualcuna arriva ed inizia il trattamento; qualcuna capisce che ne ha bisogno ma non ha ancora inquadrato tutto il problema. In ogni caso quando si presentano da noi nessuna è pronta a smettere.
Donne e violenza. Sono due strade che si intrecciano sempre?
Le donne connettono l’esperienza della violenza all’esperienza del gioco.
Il gioco salta fuori anche in termini rivendicativi. È un modo per risarcire se stessi e rivalersi nei confronti degli altri. Il gioco è denaro e il denaro è una forma di risarcimento da sempre. Il gioco è un risarcimento del danno psicologico autogestito. Anche nel caso di una relazione dove il danno è avvenuto: io mi risarcisco ma te la faccio pagare. Se le donne hanno subito violenze all’interno della famiglia d’origine da giovani, con i figli ripercorrono le stesse strade. I figli ti riattivano le stesse sensazioni passate. C’è un’ambivalenza forte: una donna gioca per sopportare una situazione difficile in famiglia, il gioco crea equilibrio, giochi per non fare di peggio. Poi la donna sente che i figli riprovano le stesse cose che lei ha provato da bambini e questa cosa innesca un senso di colpa. Dal senso di colpa non si esce facilmente ed è il primo driver. Siccome non vuoi pensare al senso di colpa riattivi il meccanismo del senso di colpa. Gioco buona occasione per tirarsi fuori dalla violenza. Il gioco non è una cosa positiva ma se il giocatore ha la fortuna di incaricare una buona situazione terapeutica è motivo di cambiamento di vita.
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