Azzardo Italia: che cosa è “cultura” per l’Istat?/1

di Marco Dotti

L’azzardo è un consumo culturale? Molte cose dipendono dalla risposta a questa domanda e non sono cose da poco.

La domanda non è oziosa, visto che:

1) la spesa in azzardo delle famiglie italiane, al netto delle vincite (= perdite secche)  ammonta a 17 miliardi di euro;

2)  come abbiamo scoperto e segnalato venerdì scorso (→ qui)  l’Istat non esita a collocare la spesa in azzardo accanto a quelle per la formazione, la cultura, l’acquisto di libri, biglietti per concerti, musei e teatro…

La risposta dell’Istat, affidata ai suoi tecnici, non si è fatta attendere. Eccola:

 

Insomma l’ente statistico pubblico, le cui ricerche sono dotate del crisma dell’ufficialità, nel darmi in gran parte ragione, finisce però in una contraddizione ancora più grande. Quello che altrove lo Stato stesso bolla come disvalore, patologia,  reato (basta rileggersi l’art. 718 del Codice Penale) distorsione del sistema stesso può essere considerato “svago”? O meglio, come specifica la risposta datami dai tecnici dell’Istat, al pari di un’attività ricreativa?! Schizofrenia istituzionale? Dissonanza cognitiva tra apparati pubblici? Credo di no.

Molte sono le criticità che emergono dalla risposta dei tecnici dell’Istat. Su tutte la nozione di “gioco d’azzardo” che fanno propria all’Istat. C’è una valutatività implicita nella apparente avalutatività dei criteri usati dall’Istat. Attraverso questa rilevazione che si vorrebbe neutrale, ma non lo è, l’Istat adotta alcuni criteri anziché altri mascherando la scelta dietro ragioni formali (regolamenti europei e quant’altro). In sostanza, poi, dentro questa “neutralità può finirci di tutto”: dalla prostituzione all’uso di eroina, dall’alcolismo al tabagismo estremo. Cosa che gli stessi criteri adottati in sede europea e richiamati dall’Istat nella risposta prevederebbero! Tutti elementi che fondano la loro presunta “ricreatività” o su sfruttamento o su atteggiamenti compulsivi, non su scelte!

Il dato del rapporto “Noi, Italia” fa così transitare elementi non culturali nel sistema culturale, accreditandoli a poco a poco per quello che non sono. Insomma, si scommette sul fatto che un popolo di ciechi non capirà mai la differenza tra il giorno e la notte. Ma chi non è cieco può vedere che, come scriveva Elias Canetti, dietro la potenza tintinnante del numero si nascondono sempre scelte di valore  (o disvalore). Tertium non datur.

Confidare in un “popolo di ciechi”: l’espressione è dell’abate Galiani, che nel suo Dialogo sul commercio dei grani, pubblicato a Parigi nel 1770, offriva una chiave possibile per cogliere il problema. Un popolo di giocatori, scriveva l’illuminista napoletano, un tempo studiato e letto in tutte le nostre facoltà universitarie,  è un popolo di ciechi. I commerci di questi ciechi sono costantemente in perdita, il debito pubblico e privato avanza, l’azzardo perverte le finalità del corpo politico e dei suoi apparati, “i diritti essenziali della sovranità – parole di Galiani – vengono dati in pegno, alienati, usurpati. Il gusto per le feste e per il fasto germoglia nel cuore dei potenti. Vogliono il lusso, opprimono il debole”. Fin qui ci siamo. Ma poi, l’abate Galiani offre la chiave di volta e tutto si spiega: “non conoscendo il prezzo delle opere delle arti che sono loro sconosciute, tutto sembra loro prezioso. Lo straniero ne approfitta. Il denaro diminuisce e scompare. La cultura ne soffre e il reddito crolla. Lo Stato tocca il fondo, il male è al suo apice” . Un popolo di giocatori – conclude – tende all’allegria, ma non è mai contento. E finisce per credere alla neutralità dei numeri.

 

[Segue… ]


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