Il rapimento di Sofia
Avere un figlio, quel desiderio che sfocia in ossessione
Il gesto estremo della donna che a Cosenza ha rapito una neonata in ospedale, potrebbe essere legato al grande dolore per un figlio desiderato e che non arrivato. Quando e perché, nella nostra società della performance, il desiderio di avere un figlio sfocia in ossessione? Intervista a Giulio Costa, psicologo e psicoterapeuta
A Cosenza una donna, fingendosi infermiera, ha rapito dall’ospedale la figlia neonata di una giovane coppia. Da mesi, raccontava sui social la sua gravidanza – fino ad arrivare ad annunciare la nascita di un maschietto a inizio gennaio –, tanto che pare che persino il marito fosse all’oscuro della finzione. Alla base di un gesto così estremo, potrebbe esserci un grande dolore, quello di non poter avere il figlio desiderato. «Nella nostra società della performance, il fatto di non riuscire a diventare genitori può essere visto come un fallimento», dice Giulio Costa, psicologo e psicoterapeuta, «che rischia di sfociare in un’ossessione».
Nel caso di Cosenza, pare ci fosse un grande desiderio di avere un figlio, rimasto irrealizzato. Come si può sviluppare un’ossessione che porta ad azioni e conseguenze così gravi?
Di solito non commento mai i fatti di cronaca, soprattutto a breve distanza, non conoscendo le storie delle persone coinvolte e non sapendo le cause – di natura psichiatrica o meno – di un gesto. Sicuramente però si può fare un ragionamento generale sulla narrazione contemporanea sulla genitorialità, che rischia sempre di più di perdere il suo senso di desiderio, per diventare un bisogno, un diritto, un’ossessione. Siamo nell’età della performance, come l’hanno definita sociologi e filosofi. E quest’ottica di perfezionismo e di performatività è andata a contaminare tutte le aree del nostro funzionamento: psichico, sociale, affettivo, educativo, lavorativo, sportivo. E va da sé, anche la sessualità. Anche la genitorialità rischia di entrare in questa dinamica. Oggi una coppia, rispetto ad altre epoche storiche, per fortuna può scegliere di non avere figli: questo è vero. Ma è altrettanto vero che all’interno di questa cornice performativa essere genitori può diventare un’ossessione.
Nel senso che in un mondo che vive del “se vuoi puoi” il non riuscire ad avere un figlio è un fallimento?
Quando il bambino non nasce – per le ragioni più diverse, magari biologiche, perché uno dei due partner non può o perché non vuole – si crea un senso di inadeguatezza. C’è chi avverte questo non riuscire ad essere genitore come un fallimento della coppia o di sé come soggetto. Ci può essere un livello molto personale, di autopercezione di sé, un pensare «non divento madre quindi sono un fallimento», ma può essere coinvolta anche la famiglia di origine.
In che modo?
Il senso di fallimento che mi dà il non riuscire a essere madre o essere padre può derivare dall’idea che così sto deludendo la mia famiglia d’origine, i miei genitori, che si aspettavano di diventare nonni.
Il gender gap porta ancora un senso di vulnerabilità e di fragilità alle donne, che non si sentono all’altezza di un mondo che le vorrebbe madri
È una dinamica che riguarda più le donne piuttosto che gli uomini?
Sulla paura di deludere la famiglia di origine non ci sono ricerche che indichino una differenza di genere. A livello della società, invece, rimane ancora troppo presente un gender gap, che porta un senso di vulnerabilità e di fragilità alle donne che non si sentono all’altezza di un mondo che vorrebbe che fossero madri.
La frustrazione di non poter avere figli può far deflagrare una coppia?
L’angoscia, il vuoto, il lutto, il dolore di non poter avere un figlio, se non elaborati individualmente e come coppia portano conseguenze. A volte a modalità maniacali per anestetizzare il dolore, mettendo in atto comportamenti pericolosi. Altre volte si può arrivare al tradimento o alla separazione. Magari ci possono essere delle derive individuali che non hanno a che fare con la coppia in quanto tale: in questo caso, pare esserci una dimensione quasi psicotica, di scissione con la realtà. La donna di cui parla la cronaca – per ragioni che non conosco – faceva sui social una narrazione in cui raccontava di una gravidanza, di una pancia che cresceva, del parto, del fatto che era nato un maschietto. Una mistificazione della realtà, per arrivare poi a un gesto estremo come il rapimento di una bambina appena nata. In generale, al di là del fatto di cronaca, c’è un bisogno sociale di narrare di essere genitore, perché altrimenti si rischia di non essere riconosciuti e quindi di non esistere.
E i social in questo non aiutano.
I social amplificano questo fenomeno, ma non lo causano. Aumentano il bisogno di identità, che vive nella quotidianità dei miei incontri a tu per tu con le persone e che diventa più grande nell’ “onlife”: ormai non c’è più distinzione tra virtuale e reale, è tutto integrato.
I social, però, possono anche amplificare la pressione sociale: se io non riesco ad avere figli, cercherò contenuti su questo tema, che mi verranno riproposti sempre di più dagli algoritmi.
Diventa un circolo vizioso, anche dal punto di vista nervoso e cognitivo. Cerco qualcosa che mi stimoli endorfine – i neurotrasmettitori del piacere – e che mi lenisca il dolore, ma è solo l’altra faccia della medaglia di un grande vuoto. Quindi ogni volta che vado a cercare una “goccia” di endorfina, ricordo anche il mio vuoto. Ed è un meccanismo difficile da interrompere, perché si può creare anche dipendenza.
Quello di non riuscire ad avere figli è un dolore che si può ed è giusto condividere
Cosa può fare chi si accorge di vivere un grande dolore per la mancanza di figli?
Nel momento in cui c’è un dolore per una perdita, per un desiderio che non trova una corrispondenza nella nascita di un figlio, il primo passo è riconoscere che c’è un lutto. Bisognerebbe parlarne all’interno della coppia e non stigmatizzare quell’assenza come un’inadeguatezza o un fallimento della persona.
In questo caso, dalle ultime notizie pare che il marito non fosse al corrente della falsa gravidanza e del dolore della moglie. Si tratta, quindi, probabilmente di una donna che ha vissuto da sola la sua sofferenza. Chi ha una situazione di solitudine è più portato a cadere nelle dinamiche che ha descritto?
Assolutamente. Quello che cura è instaurare un dialogo, poter parlare, riconoscere una mancanza che non è solo di una persona, ma della coppia. È un dolore che si può condividere e che è giusto condividere. E che può diventare qualcosa di cui parlare con un professionista.
Foto in apertura da Unsplash
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