Carcere e salute mentale

Autori di reato con disturbi psichiatrici: quale percorso per loro?

Per le persone con problemi psichici, la giustizia prevede delle strade diverse rispetto a chi non ne ha. Dagli ospedali psichiatrici giudiziari alle Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza, la normativa negli anni è cambiata, ma persistono alcune difficoltà, che vanno risolte con servizi di maggiore qualità, più integrati con i magistrati. Iniziamo così una serie che VITA dedicherà al tema della salute mentale all'interno dei penitenziari italiani

di Veronica Rossi

Sezione di una porta ad arco, in stile antico, con scritto sopra "Ospedale psichiatrico giudiziario"

L’orrore del manicomio criminale non esiste più, già dal 2015, grazie alla Legge 81/2014. Di ospedali psichiatrici giudiziari – Opg nel nostro Paese ce n’erano sei, ad Aversa (Caserta), Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), Castiglione delle Stiviere (Mantova), Montelupo Fiorentino (Firenze), Napoli e Reggio Emilia e ospitavano, al 30 settembre 2014, 783 persone. Luoghi in cui le condizioni di vita erano terribili, tanto da commuovere anche l’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano; la loro chiusura andava nella direzione già tracciata dalla Legge 180, che aveva però lasciato fuori questi casi specifici, ed è stata un atto di umanità. Ma cosa succede ora a chi ha commesso un reato e ha un disturbo psichico?

Per capirlo dobbiamo partire da molto lontano. È il codice Rocco (il nostro codice penale) del 1930 che istituisce il “doppio binario” e sancisce la non imputabilità per chi compie un reato in condizioni di infermità. «Le persone che vengono giudicate incapaci di intendere e di volere al momento del fatto non vengono processate e condannate», spiega Franco Corleone, ai tempi commissario unico per il superamento degli Opg e ora garante delle persone private della libertà per il Comune di Udine, «ma vengono prosciolte, con una formula di assoluzione. Contestualmente, tuttavia, vengono valutate sotto il profilo della pericolosità sociale, da non imputabili».

Un tempo, il percorso per chi seguiva questo iter portava al manicomio giudiziario. Oggi, il rischio è che ci sia un po’ di confusione: nelle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza – Rems, non devono finire tutti coloro che hanno un disturbo mentale e compiono un reato, ma solo coloro che effettivamente sono in una condizione tale da risultare pericolosi per sé e per gli altri. «Le Rems non sostituiscono gli Opg», dice Daniele Piccione, costituzionalista e autore di diversi studi sul tema, «dovrebbero essere una misura marginale ed eccezionale, limitata a chi ha bisogno di un’intensità di cure talmente alta da dover essere seguito costantemente».

Alla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, infatti, gli autori di reato con disturbi psichici avrebbero dovuto essere seguiti nell’ambito dei servizi di salute mentale su base dipartimentale, secondo una presa in carico individualizzata, con modalità nuove. Anche le stesse Rems, tuttavia, non dovrebbero essere un luogo in cui si rinchiude e si “dimentica” chi sta scomodo alla società, ma un luogo di cura e di individuazione di un percorso mirato per le esigenze del singolo.

Una differenza fondamentale tra Opg e Rems è che nei primi si poteva rimanere anche a vita – il cosiddetto ergastolo bianco – e addirittura chi veniva mandato dal carcere in osservazione nel manicomio criminale poteva restarci indefinitamente. Nelle seconde, invece, la durata della misura di sicurezza, secondo la Legge 81, non può essere superiore alla pena prevista per il reato compiuto. «Sa questo punto di vista oggi c’è un uso malsano delle Rems», commenta Corleone, «perché vengono usate non solo per le misure di sicurezza definitive, ma anche per quelle provvisorie, in attesa di giudizio. Questo pone grossi problemi terapeutici per gli psichiatri e per tutto il personale, che si ritrovano a dover gestire anche persone che non abbiano una permanenza definitiva. La polemica sui pochi posti, quindi, è da un certo punto di vista strumentale oppure se è in buona fede confonde i piani: le Rems non possono accogliere tutti i detenuti che stanno male».

Se in passato, quindi, i detenuti che avevano problemi di salute mentale venivano mandati in osservazione negli Opg – spesso per rimanerci – oggi non c’è questo sfogo e quando ci si ritrova di fronte a persone che hanno dei disturbi in un penitenziario, si creano numerose difficoltà. Non è detto, infatti, che tutti coloro che hanno delle condizioni psichiatriche siano dichiarati incapaci di intendere e di volere. «In teoria esistono casi in cui una persona può stare molto male ma compiere un reato che non c’entra nulla con questo», spiega Piccione. «La domanda è, però, nel circuito penitenziario che possibilità ci sono di tutela della salute mentale?».

Molto poche, a quanto sembra. Anzi, il carcere rischia di far ammalare anche chi prima stava bene. «Le condizioni nei penitenziari italiani sono drammatiche», continua il costituzionalista, «quindi a tutti gli effetti è impossibile dare delle cure a chi si trova recluso. Lo diceva anche Franco Basaglia: è inutile cercare di curare una persona in un luogo che la segreghi». Sono molti coloro che, tra i reclusi, vivono condizioni di grave disagio psichico. «Il carcere è patogeno, crea la malattia», afferma Piccione. «Un uomo spesso è costretto a vivere in condizioni subumane di sovraffollamento. C’è un altissimo tasso di suicidi, che hanno a che fare con l’inadeguatezza del nostro sistema penitenziario: per rendersene conto basta fare un agita in un carcere qualsiasi delle nostre metropoli».

«La situazione del carcere è tragica», rimarca Corleone. «Siamo di fronte al fallimento del welfare dello stato sociale. Più del 50% della detenzione è legato alla tossicodipendenza e al piccolo spaccio. Poi ci sono tutti gli stranieri, la detenzione amministrativa. Insomma, ci sono circa 40mila persone che potrebbero essere avviate a percorsi alternativi». Secondo l’ex commissario straordinario, questo permetterebbe anche di eliminare il doppio binario del codice Rocco – quindi la non imputabilità –, ritenendo tutti responsabili delle proprie azioni, ma prevedendo una pena diversa e una presa in carico reale di chi compie un reato in una condizione di disturbo psichiatrico.

Ma cosa si può fare per chi è in carcere e ha un disagio psichico? Una recente sentenza della corte costituzionale – la 99 del 2019 – stabilisce che ci sono situazioni di infermità psichicache consentono – come già accade per le malattie fisiche – di uscire dalla pena intramuraria, che può riprendere nel momento in cui la persona sta meglio. Nonostante questo, restano moltissimi coloro che rimangono in carcere pur avendo un disturbo psichiatrico: se prima c’era l’infermeria, oggi queste persone dovrebbero essere curate dal sistema sanitario nazionale.

«Questo provoca a volte un rigetto da parte dei servizi sui territori, che a volte non vogliono occuparsi né dei detenuti, né di coloro che un tempo sarebbero andati in un Opg», dice il costituzionalista. «Ci sono delle linee strategiche sommerse per le quali alcuni direttori di dipartimenti e di strutture complesse fanno di tutto per evitare di prendere in carico la persona, adducendo la motivazione che distruggerebbe equilibri già fragili e che la sicurezza non può essere garantita. Il magistrato che deve stabilire cosa fare, allora, si spaventa, perché sente la responsabilità di quello che potrebbe succedere». Questo tipo di dinamica, tuttavia, rischia di mettere a serio rischio la riforma legata alla chiusura degli Opg. «Bisogna che ci sia un’alleanza e un’integrazione tra i magistrati e i servizi territoriali», commenta Piccione. «Questo si fa con l’Uepe (Ufficio per l’esecuzione penale esterna, ndr), in cui gli operatori sociali cercano di far incontrare le esigenze dei detenuti o delle persone non imputabili con le condizioni della società e i servizi predisposti».

17 centesimi al giorno sono troppi?

Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.