Politica
Autonomia differenziata: le prime vittime saranno il diritto alla salute e all’istruzione
La legge punta alla divisione dell'Italia ed è basata sull’idea che chi ha di più deve tutelare la propria ricchezza abbandonando chi ha di meno. Il Paese già oggi è profondamente diseguale e il progetto di legge sull'autonomia differenziata lo certifica anche dal punto di vista della norma. Va costruita invece un’alleanza popolare dal basso, capace di trovare le parole giuste, gli argomenti concreti per abilitare una mobilitazione che sia in grado di coinvolgere anche le parti più fragili della società che sono quelle, soprattutto nel Mezzogiorno, che rischiano di pagare il prezzo più alto dell’autonomia differenziata
Se, come per altro possibile dati i numeri che la maggioranza ha in Parlamento, la legge sull’autonomia differenziata sarà approvata, si farà un passo definitivo – difficilmente emendabile dai governi futuri – verso una concreta – e rivendicata politicamente – de-strutturazione dell’unità del Paese. De-strutturazione che avrà ricadute sul piano politico, economico e soprattutto sul piano culturale.
Allo stesso tempo, verranno certificate da una parte le disuguaglianze che già oggi attraversano il Paese, dall’altra verrà definitivamente svuotata di senso la Costituzione, soprattutto per quanto attiene l’articolato sui diritti a partire da quelli che sanciscono il diritto e l’accesso alla salute e all’istruzione. E forse, colpendo nel profondo il senso della nostra Carta Costituzionale, viene reso inapplicabile quanto dichiarato dall’Articolo 3: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persina umana“.
Autonomia differenziata: una legge per i ricchi
Una legge quella sull’autonomia differenziata voluta da una Lega che riscopre, con la bandiera della Serenissima esposta in Parlamento, la sua natura separatista ed egoista, basata sull’idea che chi ha di più tutela la propria ricchezza abbandonando chi ha di meno ed è più indietro. E una legge che si innesta in un quadro dove la presidente del consiglio Meloni afferma in conferenza stampa, in pieno stile neo-liberista: “Preferisco tagliare la spesa pubblica che aumentare le tasse”, facendo leva sul senso comune, alimentato anche da molte delle retoriche del campo progressita, che da tempo invece di rivendicare la progressività fiscale come strumento democratico per la parità di accesso al sistema pubbico dei servizi, propone la tassazione come insieme ingiusto di vessazione dello Stato nei confronti dei poveri contntribuenti. E, ancora, in una cornice in cui il governo, come sottolinea per il Forum Disuguaglianze Diversità l’editoriale di Sottosopra sulle pagine del Fatto Quotidiano, propone una sorta di darwinismo regionale fondato sull’idea che: “Chi i soldi già li ha, li avrà; chi non li ha oggi ne avrà ancor meno domani. E mentre l’unità nazionale viene smantellata, mentre l’universalismo di servizi e prestazioni che fu cuore nobile e pulsante della Repubblica diventa utopia, con le Regioni “povere” non più in grado di fornire carissime e indispensabili cure contro il cancro, Tac di prevenzione, posti letto in ospedale, è già pronto lo scaricabarile: non è dello Stato o del Governo la responsabilità, bensì di chi non si sa amministrare”.
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L’Italia, un Paese diseguale
Tutto questo avviene in un Paese già oggi profondamente diseguale che paga il prezzo di tali disuguaglianze in primis sul piano della crescita e dello sviluppo giusto. E a sostenere questa tesi ci sono diversi esempi. Uno fra tutti riguarda le disuguaglianze educative. Nel Mezzogiorno, tra il 2015 e il 2020, si sono persi 250mila studenti dall’infanzia alle superiori; nel Centro Nord, il calo è risultato inferiore e si è fermato a meno 75mila. A ciò si aggiunga il crollo degli investimenti in 10 anni che al Sud è stato del 30%. Per effetto delle carenze infrastrutturali, solo il 18% degli alunni del Mezzogiorno accede al tempo pieno a scuola, rispetto al 48% del Centro-Nord. Un bambino del Meridione frequenta la scuola primaria per una media annua di 200 ore in meno rispetto al suo coetaneo che cresce nel Centro-Nord, questo dato coincide di fatto con un anno di scuola persa per il bambino del Sud. Secondo i dati Svimez, nel Mezzogiorno, circa 650mila alunni delle scuole primarie statali (il 79% del totale) non beneficiano di alcun servizio mensa. Insomma, un bambino o una bambina che nascono nel Mezzogiorno saranno cittadini di un Paese minore.
Serve un’alleanza popolare dal basso
E allora mai come oggi, per opporsi a questo processo – anche sostenendo iniziative referendarie in caso di sua approvazione – va costruita un’alleanza popolare dal basso, capace di trovare le parole giuste, gli argomenti concreti per abilitare mobilitazione di quei pezzi di società che, nel Mezzogiorno ma anche nel Centro – Nord rischiano di pagare il prezzo più alto di tale scelta. Nel Sud rischiano, appunto, di vedere ancora meno scuole, meno servizi sanitari, di aspettare tre volte quello che già inaccettabilmente avviene oggi per avere una visita presso le strutture sanitarie pubbliche. Farlo è fondamentale perché questa battaglia non si vince solo parlando ai centri, a chi è benestante, a chi oggi vota il campo democratico e progressista. Vanno aperte brecce e alleanze con chi guarda elettoralmente all’altra parte o non va a votare perché non si sente né visto, né riconosciuto dalla politica. Va rotto il peso delle disuguaglianze di riconoscimento che portano molte e molti – più del 50% – in tante città italiane e o aree del Paese, a pensare che il voto sia inutile.Che essere visti nei proprio bisogni dallo Stato è quasi un miracolo piuttosto che per quello che dovrebbe essere una delle linee fondative delle politiche pubbliche. Come spiegare altrimenti che ben 21mila famiglie napoletane che hanno perso il reddito di cittadinanza non hanno aperto una mobilitazioni e un conflitto costanti e visibili in difesa della prima misura strutturale contro la povertà approvata e applicata in Italia. Forse perché molte di quelle famiglie hanno vissuto quella legge come una sorta di miracolo, come un’eccezione rispetto a una politica che non guarda agli ultimi (salvo quando vanno attivate con la propaganda e agitano nemici opportuni su ipotesi sovraniste, populiste e rancorose) e per questo tolto il reddito, avendo conferma di questa percezione – era scontato che l’attenzione verso di noi fosse a tempo e precaria” – sono tornate ad arrangiarsi come prima: accettando lavori in nero, mal pagati e poco dignitosi. Lavori che spesso non consentono nemmeno di uscire dalla soglia di povertà, o magari mandando a lavorare i loro figli e figlie appena superata l’età dell’obbligo scolastico. Insomma va aperta una mobilitazione forte, che crei alleanze tra primi ed ultimi anche con il Nord, perché un Paese diviso, dai divari profondi e senza nemmeno più la speranza di poter immaginare un futuro milgiore, se non va bene a chi oggi è indietro non va bene nemmeno per chi oggi si sente primo.
Foto di © Stefano Carofei/Sintesi: Roberto Calderoli, ministro per gli affari regionali e le autonomie, al Senato durante la discussione sulla riforma dell’autonomia differenziata per le regioni a statuto ordinario
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