L’Unione Africana (Ua) festeggia oggi i suoi cinquant’anni. Era il 25 maggio del 1963, quando nacque, ad Addis Abeba, l’Organizzazione dell’Unità Africana (Oua), progenitrice dell’attuale Ua. D’allora, il continente è molto cambiato, sebbene il “Panafricanesimo”, così come era stato concepito dai padri fondatori dell’Oua, come il ghanese Kwame N’Krumah, non pare abbia ancora trovato un felice riscontro nella prassi politica. Basti pensare alle ingiustizie sistemiche perpetrate in cinquant’anni di storia dai satrapi di turno o ai costanti rigurgiti di nazionalismo, per non parlare delle progressive ingerenze di matrice neocoloniale. Eppure, nonostante la debolezza strutturale della Ua, sarebbe un imperdonabile errore continuare a giudicare il presente “con l’occhio dello straniero” che, come recita un proverbio della tradizione Dogon, “vede solo quello che già conosce”.
Lungi da ogni retorica di circostanza, credo sia lecito dire che – malgrado l’influsso pervasivo della globalizzazione, sia a livello economico che geopolitico – il modello statuale africano venga ancora oggi frainteso dalla stampa nostrana. Riflettendo, infatti, sulla cronaca di questo continente, siamo di fronte ad un insieme complesso di fattori che solo in parte sono di derivazione straniera. In effetti, i modelli di governo, se pur integrati nell’economia capitalista, sono molto spesso composti da gruppi di potere oligarchici che, non solo controllano l’apparato produttivo, ma riescono anche ad interagire con le società tradizionali, dando grande risalto all’informalità. Da una parte si riscontra una crescita significativa del Prodotto interno lordo (Pil) e un rilevante aumento dell’occupazione; mentre dall’altra affiorano gli antichi mali, quello dell’esclusione sociale e del deficit di virtuosismo da parte delle leadership locali. In effetti, fenomeni come il land grabbing (il cosiddetto accaparramento dei terreni da parte di imprese straniere) – con modalità diverse, a seconda dei Paesi – unitamente allo sfruttamento della manodopera, sono ben radicati di ogni nazione. Se le istituzioni politiche, come nel caso della Nigeria, interagiscono sul piano formale utilizzando i codici occidentali, dichiarando ad esempio guerra ad ogni forma di sovversione contro lo stato di diritto, al contempo si generano alchimie politiche e contrapposizioni etnico religiose che penalizzano fortemente la partecipazione popolare e il dibattito democratico. Inoltre, dal punto di vista dell’etica politica, i processi elettorali coinvolgono solitamente gruppi di potere e l’esito rispecchia dinamiche regionali o etniche invece che essere espressione di un’alternanza programmatica. Col risultato che i cambiamenti avvengono frequentemente a seguito di guerre civili e colpi di stato (Repubblica Centrafricana, Costa d’Avorio, Mali, Madagascar, Repubblica Democratica del Congo…). Qualora, invece, si dovesse riscontrare una discreta stabilità – a volte con evidenti progressi economici come nel caso dell’Angola, Uganda, Ruanda, Camerun…; in altri casi con la stagnazione sociale e l’implosione economica: Eritrea docet, per non parlare dello Zimbabwe – l’azione di governo è sempre saldamente in mano a regimi che resistono all’usura del tempo per l’appoggio incondizionato delle forze armate. Ecco che allora sarà sempre l’uso della forza (più o meno camuffato dalla propaganda) l’elemento discriminante per affrontare i problemi nazionali che via via si presentano.
Sebbene vi sia, a livello continentale, una significativa maturazione del diritto di cittadinanza (ad esempio, in Ghana e in Senegal), in molti Paesi, ancora oggi, le élite dominanti tendono a soffocare qualsiasi forma di dissidenza. E dire che la società civile, se fosse debitamente valorizzata, potrebbe rappresentare il vivaio di nuove classi dirigenti in grado di servire con maggiore dedizione la Res publica. Se a tutto ciò aggiungiamo i pesanti condizionamenti derivanti dalla sponda mediterranea (in particolare la crisi libica e quella egiziana) con la costante penetrazione di cellule jihadiste nella fascia Subsahariana, il tanto declamato “Big Deal” africano andrebbe quantomeno ridimensionato.
Una cosa è certa: l’esodo delle popolazioni afro che sta interessando l’Europa, prim’ancora che essere una crisi umanitaria è una crisi di conoscenza dell’Africa. Un’ operazione resa difficile dai forti condizionamenti dell’apparato massmediale generalista, renitente davanti alle prospettive di un dibattito sul merito dei problemi internazionali. Il consesso europeo contesta all’Africa l’emigrazione clandestina, il terrorismo, i traffici illeciti e la corruzione. Come se toccasse solo all’Africa risolvere le contraddizioni del mondo globalizzato.
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