Welfare

Attrazione solidale

«Ho cominciato come volontario a 16 anni, ho vissuto con i disabili ai quali trovavo un lavoro. Oggi fatturo 6 miliardi, e sono davvero felice»

di Carlotta Jesi

«Per capirlo basterebbe uno studio comparativo sul tasso di mortalità delle imprese profit e non profit: queste ultime vivono più a lungo. E, quindi, anche la ricchezza sociale che producono». Uno studio che ancora non esiste, ma sui cui possibili risultati Maurizio Marotta è pronto a mettere una mano sul fuoco. E se lo dice uno che di economia civile è diventato esperto ponendo le basi della sua impresa sociale quando aveva 16 anni, direttamente sul campo, vale la pena di scoprire come oggi, tra i quaranta e i cinquanta, si trova a dirigere Co.In. Un consorzio di 44 cooperative sociali di tipo B del Centro Sud con 6 miliardi di fatturato. Cui comincia a pensare da ragazzino, durante i campi estivi di volontariato nella Comunità di Capodarco a Pesaro.
«Al sociale mi sono avvicinato allora e non l’ho più lasciato», spiega Marotta. Che all’inizio degli anni Settanta, quando “Capodarco” si trasferisce a Roma, va a vivere insieme ai disabili che la comunità sostiene fondando tante piccole cooperative in cui impiegarli. Cooperative che diventano “sociali” solo molto tempo dopo, con quella legge 381 del 1988 approvata anche grazie al cambiamento culturale che persone come Maurizio Marotta contribuiscono a creare. «Perché essere un imprenditore sociale», spiega il direttore del consorzio Co.In che organizza il primo coordinamento di cooperative del Lazio per l’inserimento lavorativo dei disabili proprio nel 1988, «significa anche creare le condizioni perché un’economia civile possa davvero nascere e decollare».
Negli ultimi anni, dalla fiscalizzazione degli oneri sociali all’estensione dei benefici per l’imprenditorialità giovanile alle cooperative sociali prevista dall’articolo 51 dell’ultima Finanziaria, di condizioni per lo sviluppo dell’economia civile gli imprenditori sociali ne hanno “create” tante. Ma, purtroppo, numerose sono anche le difficoltà ancora da superare. «Innanzitutto la scarsa credibilità che, nonostante un tasso di crescita del 20% annuo, banche, fondazioni e investitori in genere riconoscono alle imprese sociali», spiega Marotta. E aggiunge: «Un altro ostacolo è rappresentato dalla genericità con cui, spesso, politica e media includono l’imprenditorialità sociale nel calderone del Terzo settore. Il che, per esempio, porta a giudicare queste esperienze per lo spirito e il carattere che le anima più che per la qualità dei loro prodotti». Manufatti che, oggi, comprendono anche elementi di arredo, contenitori in alluminio e Pvc, strutture di ferro come cancelli e finestre, apparati elettronici per le telecomunicazioni e cosmetici. Insomma, prodotti che sul mercato hanno una bella concorrenza e, per essere acquistati, devono garantire efficienza e solidità oltre che un’origine equa e solidale.
Perché il non profit renda davvero possibile l’attuazione del principio di sussidiarietà in Italia e l’umanizzazione dell’economia, insomma, c’è ancora molta strada da fare. In che direzione, comunque, Marotta non ha dubbi: affiancare ai contenuti sociali la qualità del prodotto, creare alleanze con settori, come l’agricoltura e l’artigianato, che in teoria non sono considerati svantaggiati ma in pratica risultano sempre più tagliati fuori dal mercato, sostenere lo sviluppo del territorio e l’arredo urbano, ottimizzare l’impresa sociale con il telelavoro e, soprattutto, cementare la motivazione degli imprenditori sociali con efficaci strategie di business.
I risultati attesi? Meno disoccupazione, lotta all’esclusione sociale, integrazione dei disabili, aumento del volume di impresa e di quello che, per Marotta: «è un guadagno personale, in relazioni umane, valori, amicizia e qualità della vita che va al di là di qualunque stipendio».

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