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Attività commerciale, ancora troppi limiti

Continua e si conclude l’analisi del nostro esperto di diritto tributario, Antonio Cuonzo, sul progetto di riforma del Codice civile in tema di enti non societari

di Redazione

Continua e si conclude l?analisi del nostro esperto di diritto tributario, Antonio Cuonzo, sul progetto di riforma del Codice civile in tema di enti non societari. Il tema affrontato questa settimana non poteva essere che la questione relativa alla possibilità dell?esercizio di attività commerciali, una delle novità più controverse e importanti del progetto normativo.

Il settore non profit da sempre viene definito in negativo (enti ?non? commerciali), lasciando presumere la preminenza di tutto ciò che è commerciale. Il progetto di riforma, sul tema, si esprime in maniera chiara prevedendo il principio per cui la legge riconoscerà la possibilità di esercitare attività di impresa alle associazioni, riconosciute e non riconosciute, e alle fondazioni con il limite rappresentato dal rapporto di pertinenza o di non snaturamento dello scopo perseguito dall?ente.

Innanzitutto, ci piace ricordare che una simile possibilità è già espressamente prevista dal dpr 917/1986 (Testo Unico delle imposte sui redditi) il quale contiene disposizioni che regolano la tassazione delle attività commerciali degli enti di questo tipo. Si potrebbe obiettare che si tratta di disposizioni tributarie e non civilistiche, ma resta il fatto che si tratta di una legge dello Stato che prevede simili evenienze come strutturali e ricorrenti.In secondo luogo, pur essendo il progetto incentrato sull?introduzione nel Codice civile di un riconoscimento per gli enti non societari di esercitare attività commerciali non prevalenti, ci preoccupa non poco vedere affiancati i concetti di ?attività? e ?scopo? e il pericolo che si perpetui la solita confusione che affligge da anni gli operatori del settore. Lo scopo non lucrativo non potrebbe, a nostro avviso, essere mai messo in discussione dalla natura (commerciale o meno) dell?attività esercitata in quanto, finché la struttura non distribuisce utili o avanzi di gestione, lo scopo non lucrativo sarà sempre salvo. Per fare un esempio, se un ente operasse per trovare una cura per i bambini afflitti da una malattia genetica, le sue attività dovrebbero dirsi pertinenti allo scopo (e non snaturanti) fino a quando i proventi delle stesse vengono impiegati per le ricerca della specifica cura. Lo scopo non si snatura perché si fanno attività commerciali, ma lo si snatura perché non lo si rispetta.

Infine, se volessimo cogliere la presumibile vera ratio del progetto, ci sentiremmo ugualmente preoccupati dalla possibilità che la ?non regolamentazione? sia meglio di una ?regolamentazione restrittiva? che possa risultare come l?ennesimo tentativo di relegare le attività commerciali degli enti non societari alle solite e obsolete forme di minor importanza. Oggi i fondi che aiutano la ricerca scientifica, la tutela dei diritti umani o il futuro delle persone non autosufficienti senza famiglia, ad esempio, passano ormai da tecniche di marketing e da operatività commerciali di stampo anglosassone che non solo disorientano il fisco ma che non trovano rispondenza neanche nelle più evolute tecniche di mercato delle grandi imprese; il tutto senza mai perdere di vista l?obiettivo rappresentato dallo scopo sociale dell?ente.

Che male c?è se l?Unicef, presumibilmente in cambio di denaro, cede l?uso del suo nome alla squadra di calcio del Barcellona, per finanziare i suoi progetti umanitari? La reale preoccupazione, quindi, è che vista l?intenzione di regolamentare la possibilità di esercitare attività commerciali, non si commetta l?errore di regolamentarle in maniera riduttiva rispetto alle potenziali attività di finanziamento delle cause sociali.

Antonio Cuonzo Studio Camozzi Bonissoni Varrenti & Associati


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