Non profit

Attenti, questa è una terra rimasta senza parole

Il Veneto visto da vicino. Intervista a Ilvo Diamanti

di Giuseppe Frangi

Le esperienze di integrazione ci sono, ma sono tenute volutamente mute. Le parole vengono usate solo per raccontare la paura Per Ilvo Diamanti la grande emergenza del Veneto, in cui lui stesso vive, sono le parole. Sì, proprio le parole. Quelle pesanti attraverso le quali la politica coltiva il consenso. E quelle assenti che non sono in grado di “dire” quanto si sperimenta nella realtà. Diamanti è uno dei più minuziosi osservatori della vita sociale e politica italiana. Non ragiona mai per macro categorie ma inseguendo e interpretando i fenomeni nei loro risvolti più concreti. Come le parole, per esempio.
Vita: Professore, lei aveva coniato per la Lega in Veneto una formula azzeccata: «Predica male e razzola bene». Come ci si spiega un salto mortale di questo tipo?
Ilvo Diamanti: Semplice. Alimentare la paura porta i voti. Ma poi pragmaticamente favorire l’integrazione è una necessità di tutto l’ambiente. Ci sono tanti casi di amministrazioni comunali che prima cacciano con grandi proclami gli immigrati dalle case e poi, dietro le quinte, finanziano le associazioni per assicurare la tutela legale degli immigrati stessi. Ma non è un paradosso. Non c’è altra scelta.
Vita: In che senso?
Diamanti: Nel senso che Lega e immigrazione hanno le stesse variabili causali. I fattori che hanno portato alla crescita del partito di Bossi sono gli stessi che hanno determinato un’immigrazione in proporzioni così massicce. È il modello della piccola impresa, dei piccoli comuni, delle case di proprietà, del policentrismo diffuso. Così gli stessi soggetti che hanno favorito l’immigrazione, hanno una rappresentanza che a parole la scoraggia.
Vita: Appunto le parole che le fanno tanta paura, a dispetto di una realtà che sembra invece metabolizzare bene i nuovi arrivati. Perché?
Diamanti: Per due motivi. Primo, perché le parole prima o poi diventano realtà. Secondo, perché la realtà oggi non ha parole per dirsi. Io percepisco che l’integrazione sta funzionando, ma non ho parole per comunicarlo. E alla fine una cosa che non può essere detta finisce con il non esistere più. Non abbiamo le parole per dirlo; quasi fosse in atto un’operazione per negare ai nostri occhi quello che noi stessi facciamo. È una dissociazione che percepisco sempre più forte dentro di noi. E alla fine anche le parole cambiano di significato…
Vita: Ad esempio?
Diamanti: L’ho detto al recente Festival Biblico in cui sono stato invitato a parlare di ospitalità. Oggi sempre più questa parola connota l’idea di accogliere qualcuno che è di passaggio. L’ospite per noi è uno che è di passaggio. Invece la realtà ci dice che chi arriva resterà a lungo, se non per sempre. In greco straniero e ospitalità hanno una radice molto simile: xenos e xenia. Erano concetti associati. Oggi quella radice viene usata unicamente per esprimere la paura. Ci è rimasta solo la xenofobia.
Vita: Torniamo alla Lega. Quanto reggerà su questo doppio registro?
Diamanti: Il partito di Bossi è cresciuto nell’area più globalizzata del Paese rispondendo allo spaesamento diffuso. Ha promesso sicurezza e a suo modo l’ha garantita anche grazie a ciò che non dichiara: un’integrazione reale basata su misure oggettive. Così ci si spiega il paradosso che più il voto alla Lega è alto e più è al top l’indice di integrazione secondo i parametri certamente attendibili di Caritas Migrantes. Il grande limite è il non detto. Perché non si parla mai di prospettive, di integrazione come percorso. È una risposta di chiusura, perché il pensiero di fondo è che questa è gente che alla fine è meglio torni a casa sua.


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