Continuo la mia riflessione sul Sinodo straordinario sulla famiglia. Se fosse stato un “Concilio” politico avremmo parlato di divisioni, di minoranze, di polemiche, di atmosfera pesante. Invece, con Francesco, bisogna dare alle parole il significato giusto.
Per la prima volta, in Vaticano, quasi duecento porporati hanno dibattuto temi, tesi e problemi delicatissimi, mai affrontati, a scavalco tra storia e dottrina. I tempi sono cambiati ma la dottrina fa sempre molta più fatica dei tempi ad accorgersi del cambiamento.
Sono emerse differenze, interpretazioni, qualche fretta in più e qualche elasticità in meno. Il coraggio di questo Papa non lo capiremo mai fino in fondo, perché il servizio mai è riuscito a scalfire il potere.
E il potere “ecclesiastico” è più potente e cinico del potere laico. Nel potere ecclesiastico viene messa in mezzo la verità, la parola di Dio, l’ortodossia. Meglio, viene messo di mezzo addirittura l’intero Padreterno.
A noi, definiti fino a ieri credenti, non abituati alle grandi questioni e lontani dalle raffinatezze del padroni della fede, lo sconcerto ci prende trovandoci annoverati tra i miscredenti. Una chiesa che non capisce i dolori della gente e che definisce poco serio l’ascolto, il rispetto, la misericordia, è una chiesa che non ci interessa. Cristo non penso che la volesse così quando ha eletto Pietro, l’apostolo del canto del gallo, pietra sulla quale fondare il popolo delle beatitudini.
Nella relazione finale Papa Francesco ha ribadito la sua linea di trasparenza, di dialogo, di chiarezza, di servizio. I due tempi di questo Papa sono difficili da coniugare ma importanti e decisivi.
La tenerezza, l’ascolto, l’apertura, il coraggio di mangiare e bere con prostitute e pubblicani, la popolarità, la simpatia e, nel contempo, la pazienza, l’energia, il rischio, l’incomprensione, l’isolamento, il non saluto.
È la gerarchia, ancora una volta, che impedisce, rallenta, anziché trasformare le pietre in pane, rischia il contrario, cioè di trasformare il pane in pietre.
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