Gli attentati perpetrati in questi giorni dal movimento “Boko Haram” sono sintomatici del malessere che attanaglia la Nigeria. Il fenomeno è a dir poco inquietante se si considera che stiamo parlando di un Paese che galleggia sul petrolio, con 155 milioni di abitanti che appartengono a 250 gruppi etnici, ma in cui il governo centrale è sempre più alle prese con scottanti questioni sociali. Il progetto politico di questi “talebani d’Africa” è comune ad altre formazioni estremiste presenti nel mondo islamico. In Nigeria essi vorrebbero imporre la sharia (la legge islamica) a tutta la Repubblica Federale che finora ha goduto di una costituzione garante della laicità delle istituzioni politiche. Il nome ufficiale dei questa formazione è “Jamà atu Ahlis Sunna Lidda’ awati wal-Jihad”, che in lingua araba vuol dire “Gente dedita alla propagazione degli insegnamenti del Profeta e al Jihad”. Stando ad indiscrezioni della società civile, i veri mandanti sarebbero personaggi dell’alta finanza nigeriana, con investimenti nel business del petrolio, ma anche esponenti del salafismo saudita, lo stesso che ha foraggiato alacremente Al Qaeda in giro per il mondo. Da questo punto di vista la prima considerazione che sovviene riguarda il rischio che la cosiddetta “primavera araba”, che ha interessato quest’anno la fascia nordafricana, possa rappresentare, qualora dovessero imporsi gli integralisti islamici, un fattore destabilizzante per la fascia Sub-Sahariana. Se così fosse, verrebbe sciupata un’opportunità per il cambiamento, consegnando certi Paesi, finora tolleranti sul piano religioso e sociale, all’integralismo islamico. L’Occidente, pertanto, deve trovare il coraggio di affrontare seriamente la questione, attraverso una lettura critica della globalizzazione che, soprattutto in Africa, nonostante gli investimenti stranieri, ha acuito la miseria delle popolazioni autoctone. La posta in gioco è alta se si considera che l’estremismo della Mezzaluna rischia di diffondersi a macchia d’olio, dalla Somalia alla Nigeria. Un deterrente è rappresentato da nuove forme di governance che tengano conto della persona umana e non solo dei ricavi derivanti dallo sfruttamento del bacino petrolifero. Proventi che quasi mai hanno generato uno sviluppo sostenibile dei ceti meno abbienti. Ecco che allora, ad esempio, fare cooperazione in Paesi come la Nigeria, dovrebbe significare all’atto pratico, investimenti di risorse umane ed economiche nell’istruzione, soprattutto a livello universitario. Inoltre, sarebbe auspicabile che la lotta alla corruzione entrasse a pieno titolo nell’agenda del governo nigeriano, considerando che a tutt’oggi l’1% della popolazione detiene il 75% della ricchezza nazionale. Fin quando i proventi dell’oro nero finiranno nelle tasche di un manipolo di nababbi, con la complicità delle imprese straniere – poco importa se americane, europee o cinesi – le masse impoverite rappresenteranno il vivaio di ogni genere di estremismo.
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