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Atacama, la discarica della moda usa e getta

In Cile questo patrimonio dell'Unesco è diventato una nuova vittima del "fast fashion". Ogni anno 60mila tonnellate di vestiti invenduti entrano nella zona franca del porto di Iquique e da qui dal momento che le discariche locali non accettano questi prodotti per la presenza di sostanze inquinanti, in modo clandestino, nell'area desertica nel silenzio generale. Ora dopo un reportage di Aljazeera il bubbone è scoppiato

di Paolo Manzo

Il deserto di Atacama è patrimonio dell’Unesco, una meraviglia per le migliaia di turisti che ogni mese lo visitano, in Cile: 1600 km di lunghezza di splendore. Eppure, ad Alto Hospicio, comune della regione di Iquique a 1800 Km dalla capitale Santiago, da qualche anno si stanno formando nuove dune che nulla hanno a che vedere con la sabbia. Si tratta di colline di vestiti invenduti provenienti da tutto il mondo. Per questo motivo oggi Atacama si sta trasformando in una vera e propria discarica di abiti usati importati in Cile da Stati Uniti, Europa ed Asia.
Secondo le autorità locali, ogni anno quasi 60.000 tonnellate di “fast fashion”, la cosiddetta moda “usa e getta”, entrano così nella zona franca del porto di Iquique ma alcuni degli indumenti vengono scartati e finiscono poi per accumularsi nel deserto di Atacama, «dove impiegheranno fino a 200 anni per decomporsi, non essendo biodegradabili nella larga maggioranza dei casi» spiega l’imprenditore ambientalista Franklin Zepeda. Ad Alto Hospicio è normale vedere ogni giorno gruppi di donne e di bambini che si aggirano tra cumuli di t-shirt e pantaloncini dell’anno precedente, per vedere se qualche capo può ancora essere utilizzato. Tutti sono solitamente pieni di tossine e coloranti e stanno causando un disastro ambientale sinora ampiamente trascurato dai politici locali ma che, grazie ad un reportage di Aljazeera, adesso il bubbone è scoppiato e, naturalmente, sta facendo molto discutere, anche nel mondo della moda.

Il problema per il deserto di Atacama è che un numero crescente di indumenti dall’inizio della pandemia non viene più venduto a Santiago, né contrabbandato e spedito in altri Paesi e, allora, rimane nella zona franca di Iquique dove non è responsabilità di nessuno pagare le tariffe necessarie per portarlo via. Inoltre, le discariche comunali non accettano i tessuti a causa dei prodotti chimici in essi contenuti e per questo, alla fine, fino a 39.000 tonnellate di vestiti invenduti e indesiderati vengono trasportati in modo clandestino ogni anno nel deserto più arido del mondo, dove ricoprono letteralmente le dune di sabbia con strati su strati di tessuti di scarto.

Zepeda ha fondato nel 2018 EcoFibra per affrontare questo disastro ambientale sinora invisibile al mondo, un'azienda questa che produce pannelli isolanti proprio utilizzando i vestiti di scarto di Atacama. «Quando mi è venuta l’idea, volevo smettere di essere parte del problema per iniziare ad essere la soluzione», spiega. Mentre le esternalità umane del consumismo dilagante legato alla moda – con il lavoro minorile e le condizioni orribili nelle fabbriche di molti paesi asiatici – sono ben documentate, il costo ambientale della cosiddetta “fast fashion” è meno pubblicizzato e meno noto. La verità, tuttavia, è che la "moda veloce" utilizza una quantità enorme di acqua, qualcosa come 7500 litri per un paio di jeans, secondo un recente rapporto delle Nazioni Unite, ovvero la quantità equivalente di acqua che una persona media beve in sette anni. In totale, l’UNCTAD, la Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo, stima che l'industria della moda utilizzi circa 93 miliardi di metri cubi di acqua ogni anno, sufficienti per dissetare cinque milioni di persone.

1Quando pensiamo alle industrie che stanno avendo un effetto dannoso sull'ambiente, vengono in mente la produzione, l'energia, i trasporti e persino la produzione alimentare», afferma il rapporto delle Nazioni Unite. «Peccato solo che proprio l'industria della moda sia ritenuta la seconda più inquinante al mondo», dopo quella petrolifera. «Abbiamo bisogno di un modello che non comprometta i valori etici, sociali e ambientali e coinvolga i clienti, piuttosto che incoraggiarli ad abbuffarsi di tendenze in continua evoluzione», spiega Greenpeace Italia nell'ambito della campagna Detox My Fashion. Invece di cambiare i nostri guardaroba e stili con i capricci del "fast fashion", come consumatori solo cambiando la nostra mentalità invece dei nostri abiti saremo in grado di effettuare un vero cambiamento. Ed il rapporto Onu ha anche stimato che circa mezzo milione di tonnellate di microfibre finiscono negli oceani ogni anno per mano della "fast fashion”, l'equivalente di 3 milioni di barili di petrolio. Non solo oceani però visto che, adesso, anche il deserto di Atacama è una vittima di questo sistema assolutamente insostenibile di fare moda.

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