Non profit
Associazioni o club? Dipende da quote e servizi
L'Agenzia delle Entrate affronta un caso particolare
di Redazione
Un club che organizza varie attività per offrire ai soci il godimento di bellezze architettoniche, culturali ed enogastronomiche, vuole acquistare appartamenti privati di lusso in cui i soci potranno soggiornare usufruendo anche di servizi quali reception, area fitness, connessione internet, libreria, tv satellitare, corsi di cucina, yoga, pilates… Il tutto a patto di versare una quota associativa piuttosto alta. L’Agenzia delle Entrate interviene in merito alle eventuali agevolazioni per gli enti non commerciali a struttura associativa.La faccia; bisogna averne di faccia. Per far cosa? Per ritenere non commerciali la realizzazione di certe attività.
L’Agenzia delle Entrate risponde a un quesito, posto da alcune società che intendono formare un’associazione attraverso la quale offrono ai soci (dell’associazione) una serie di servizi legati direi al wellness.
Anzi, la curiosità non sta nei servizi, che vedremo dopo, ma nel come vengono proposti.
Ci si associa pagando una quota d’ingresso, poi una quota annuale (variabile a seconda di certi servizi) e ulteriori quote differenti ancora a seconda delle attività richieste. E fin qui nulla di male, se non fosse che l’interpellante ritiene di poter far ricadere i tre versamenti nell’ambito delle “quote sociali”; sbagliato, dato che devo chiamare le cose con il loro nome.
Se chiedo una somma a seconda della richiesta del mio socio, questo si chiama corrispettivo. Se chiedo in generale – e in modo indifferenziato tra i soci – una somma che mi aiuti a coprire almeno parte dei costi generali (presunti in quanto futuri) dell’ente, chiamo questa entrata “quota”. Ci viene in aiuto anche il significato del termine, l’etimologia, la logica.
L’Agenzia delle Entrate concorda con la logica e dice pertanto che ciò che l’interpellante chiama quote, in realtà sono corrispettivi che sarebbero defiscalizzati; purtroppo (guarda caso) lo statuto dell’associazione non risponde ai requisiti richiesti dall’articolo 148 del Tuir, Imposte dirette (e dall’omologo Iva), che – vi ricordate? – sono stati richiamati dal famoso articolo 30 (dl 185/08): democraticità, trasparenza nel rapporto con i soci, assenza di soci temporanei ecc. Pertanto i corrispettivi incassati dall’associazione hanno natura commerciale.
Ma perché mai i fondatori hanno pensato di scrivere uno statuto in questo modo, col rischio di vedersi contestata la commercialità delle attività?
Perché in realtà avevano organizzato un’attività che – al netto del contenuto statutario – aveva oggettivamente le caratteristiche commerciali. Infatti ora svelo l’arcano: mi faccio socio di questa associazione e posso accedere, a seconda delle “quote” pagate, ad alloggi prestigiosi di diversa misura presso un immobile di uno dei soci (società) dell’associazione. Posso utilizzare un servizio (a pagamento attraverso “quota”) di trasferimento da e per l’aeroporto; posso fare corsi di pilates, o di yoga, o degustazione di vini: mai più senza! Basta capirsi. È chiaro che si intendeva creare un club esclusivo. E può essere realizzato anche in modalità non profit, da ente non commerciale. Però, più ci si organizza in modo imprenditoriale (con mezzi e per misure rilevanti), e meno è sostenibile la non commercialità dell’attività. Se ho l’uso di un immobile e allestisco attività alla stregua di aziende di wellness, va da sé che non mi differenzia nulla, allora sono un’azienda, pratico attività commerciale.
Ancora una piccola annotazione: ma perché mai non hanno inserito nello statuto quelle regole di democraticità ecc? Perché non intendevano costituire un’associazione che si fa ricca delle istanze e delle posizioni degli associati, affidando a loro tutto il controllo, indifferentemente dal contributo corrisposto. Bramavano costituire un’associazione non democratica nella quale molti partecipassero (profumatamente pagando) e pochi decidessero sulle attività. Rapporto prestatore-cliente, di certo non sodalizio.
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