Welfare

Assistenti sociali, professionisti “al fronte”

Un assistente sociale su tre ha paura quando va in ufficio al mattino, ha temuto per la propria incolumità o per quella dei propri figli. Il 90% ha ricevuto minacce, intimidazioni, aggressioni verbali o fisiche nello svolgimento della propria professione. La fotografia nel volume “La violenza contro gli assistenti sociali in Italia”, frutto di una ricerca su 20mila professionisti

di Sara De Carli

«Abbiamo perso il piano della realtà e anche del limite. Da una parte sei preda di persone incitate all’odio e dall’altra sei schiacciato da mille e una situazione, a cui aggiungere una scarsità di risorse e un appiattimento della formazione. Questa cosa è un mix esplosivo. E sono sconcertato dal fatto che nessuno delle istituzioni abbia preso le distanze da chi, nelle scorse settimane, sotto i post che parlavano di Bibbiano abbia scritto di tutto riguardo agli assistenti sociali. I colleghi erano minacciati anche prima, figuriamoci adesso». Era luglio e Gianmario Gazzi, presidente del Consiglio Nazionale dell'Ordine degli Assistenti Sociali, faceva queste considerazioni a margine dell’inchiesta sui servizi sociali della Val d’Enza. Le segnalazioni di aggressioni o minacce ad assistenti sociali – dallo scorso marzo l’Ordine ha attivato un servizio ad hoc sul proprio sito dell'Ordine – sono una al giorno: «il dato rimane costante dall'inizio della rilevazione, ma credo che “l’effetto Bibbiano” abbia peggiorato la situazione perché tenuto conto che ad agosto molti servizi erano chiusi, abbiamo mantenuto un numero costante di segnalazioni quando di solito c'è un calo», ha detto Gazzi pochi giorni fa, in un convegno alla Camera.

Queste riflessioni mi sono tornate alla mente oggi, leggendo nella cronaca locale dell’ennesimo caso di un’assistente sociale aggredita. Solo che in questo caso, il Comune era il mio. L’intervento era dei più delicati, l’allontanamento di minori dal proprio nucleo familiare. Un intervento disposto dal Tribunale per i Minorenni, che non si fa mai a cuor leggero. Professionisti in prima linea, nelle complesse situazioni di fragilità che oggi più che mai ci vivono accanto, non altrove. Il Consiglio Nazionale dell'Ordine degli Assistenti Sociali ha presentato alla Camera dei Deputati il volume “La violenza contro gli assistenti sociali in Italia” (Franco Angeli), che raccoglie gli esiti di una ricerca condotta su un campione di oltre 20mila assistenti sociali: il 90% ha ricevuto minacce, intimidazioni, aggressioni verbali o fisiche nello svolgimento della propria professione. Sono stati minacciati di comportamenti ritorsivi, sono stati aggrediti nei luoghi di lavoro con oggetti presenti negli uffici o con armi portate da casa. Un assistente sociale su tre ha paura quando va in ufficio al mattino, ha temuto per la propria incolumità o per quella dei propri figli, ha avuto paura di o è stato effettivamente seguito. Tre professionisti su 20 hanno subito una forma di aggressione fisica, uno su dieci ha subito danni a beni o proprietà. Soltanto poco più di un assistente sociale su dieci non ha mai ricevuto minacce, intimidazioni o aggressioni verbali.

Poco dopo, il 25 settembre, il Senato ha approvato il ddl “Disposizioni in materia di sicurezza per gli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nell’esercizio delle loro funzioni” (era nato solo per le professioni sanitarie): «nel passaggio alla Camera daremo il nostro contributo per poter garantire le stesse tutele anche per coloro che esercitano la professione nei comuni o negli enti territoriali. Garantire la sicurezza di chi opera per il bene e la cura della collettività, oltre ad essere un dovere non più procrastinabile, è anche nell'interesse di tutti quelli che beneficiano delle loro cure ed assistenze», ha detto l’onorevole Elena Carnevali.

Secondo Gazzi, la violenza nasce per «la differenza tra le aspettative che hanno le persone e i servizi che effettivamente ci sono. L’esempio più facile è quello degli anziani. Mi viene detto che c'è l'integrazione sociosanitaria, l'assistenza domiciliare, i centri diurni… poi vado al Comune e quel servizio di cui mi è stato detto non c'è o non è all'altezza, perché parliamo di pochissimi posti per numeri enormi di persone. Contro chi scarico questa frustrazione? Con la persona che mi trovo di fronte. Un altro esempio è il reddito di cittadinanza. Se io promuovo una comunicazione che parla di 780 euro di reddito di cittadinanza, pur sapendo che c'è un parametro sui redditi che lo abbassa, quando si dirà al cittadino che non riceverà 780, ma 200 euro, con chi si arrabbia la persona? Con chi ha di fronte. Quindi il problema spesso nasce dalle promesse che vengono fatte, anche in modo incauto per propaganda, e la realtà dei servizi. La battaglia degli assistenti sociali è una battaglia che garantisce innanzitutto i diritti dei cittadini: più diritti per i cittadini, più servizi adeguati, vuol dire meno aggressioni».

Al tempo stesso, essendomi oggi più che mai spontaneo provare a vestire i panni della famiglia, pur non conoscendone l'identità, ripensavo alle parole del professor Luigi Cancrini: «tutte le volte che si parla di maltrattamento, il primo concetto da tener presente è che la famiglia è l’unità sofferente e bisognosa di aiuto. Tutti, non solo il bambino. Quindi il grande segreto è riuscire a mettere sotto la propria lente di osservazione il nucleo famigliare, nel quale possono sì esserci carenze gravi, ma in cui bisogna cercare anche le risorse. Sono molto amareggiato dal punto di vista professionale quando vedo famiglie che non sono state accolte e ascoltate: una famiglia che non ce la fa deve essere aiutata a farcela, ed è un problema professionale quello di convincere una famiglia che ha bisogno di aiuto. Credo che tanti professionisti debbano mettersi una mano sulla coscienza, nel senso che il coinvolgimento a volte – in buona fede – porta a prendere posizioni che vorrebbero aiutare, ma in realtà non ci si rende conto del fatto che i genitori non hanno solo colpe ma anche fragilità. Noi terapeuti familiari dobbiamo avere chiaro il fatto che quelle che devono essere attivete sono le risorse della famiglia e che l’affido è un istituto in cui l'aiuto deve essere rivolto alla famiglia, non solo al bambino».​

Ma torniamo allo scollamento fra aspettative e realtà. La realtà del welfare italiano, visto da quella prima linea che sono i servizi sociali, è questa: gli assistenti sociali impiegato negli enti locali sono circa 11.500 che su 8mila comuni italiani fa – in media – poco più di un assistente sociale per ogni comune. E già così la situazione sarebbe complicata. In realtà, dal momento che grandi città come Roma hanno da sole decine di assistenti sociali, significa che centinaia e centinaia di Comuni in Italia l’assistente sociale non lo hanno per niente. Roberto Di Bella, presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, nelle scorse settimane ci aveva raccontato che sui 98 Comuni del suo territorio, più della metà non ha un servizio sociale: «Può immaginare com’è difficile muoversi, reperire informazioni sui nuclei familiari, eseguire provvedimenti in questa situazione… stiamo coinvolgendo i servizi sociali del ministero della Giustizia anche su casi del civile. Allontanare deve essere l’estrema ratio e con l’educativa domiciliare si può fare moltissimo, ma spesso i Comuni ci rispondono che non hanno fondi». Questo è un primo tema, i numeri. L’altro riguarda la qualità: i servizi sociali sono una funzione che non dovrebbe essere esternalizzata, e invece spessissimo lo è. «Esternalizzare vuol dire anche precarizzare, sottodimensionare per stare dentro i costi e andare a creare meccanismi di turnover continuo per cui i risultato è che oggi parlo con Mario, domani con Maria e poi con Beppe… impossibile strutturare un servizio. Spesso e volentieri è stata tolta la supervisione, la formazione, ci sono colleghi che mi scrivono che la formazione continua la possono fare solo il sabato o prendendo ferie», continua Gazzi.

Quanto alla violenza, per Gazzi «è importante prevenire il fenomeno, garantendo da un lato la sicurezza ma anche i diritti dei cittadini che se frustrati aumentano sicuramente il rischio di aggressioni. La proposta migliore è quella di dotare tutte le organizzazioni di sufficienti risorse sia di personale, sia di servizi a favore della popolazione».

Photo by julian mora on Unsplash

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