Neurodivergenza

Asperger: diagnosi divisiva o affermazione identitaria?

Dal 2013 questa sindrome non esiste più nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, essendo confluita nella più ampia categoria dei disturbi dello spettro autistico. Il dibattito sul tema, tuttavia, è ancora acceso - all'interno della comunità scientifica, delle persone nello spettro e dei familiari - tra chi sostiene la scelta degli autori del volume e chi invece vorrebbe reintrodurre la distinzione

di Veronica Rossi

Una rete cerebrale collegata da linee e puntini rossi

Nel 2013 c’è stato uno scossone all’interno del mondo delle neurodivergenze: con la quinta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali – Dsm è scomparsa la diagnosi di sindrome di Asperger, andata a confluire all’interno della più ampia categoria di “Disturbi dello spettro autistico”.

Questo tipo di diagnosi ha avuto una vita relativamente breve – è comparsa per la prima volta nella quarta edizione del manuale, risalente al 1994, che l’ha distinta dall’autismo per assenza di disabilità intellettiva e compromissione funzionale del linguaggio – ma ha un portato identitario non indifferente e la sua soppressione ha scatenato discussioni e dibattiti, sia all’interno della comunità scientifica che in quella delle persone neurodivergenti. La diatriba, a un decennio dalla pubblicazione delle nuove indicazioni, è tutt’altro che sopita: secondo gli autori del manuale, non ci sono elementi sufficienti a supporto di una distinzione tra autismo e sindrome di Asperger; altri studiosi, invece, sostengono che le due categorie siano necessarie. Anche tra chi fa self advocacy, il dibattito è aperto. Se alcuni sentono di avere “perso” una parte della loro identità quando la loro diagnosi è ricaduta sotto un cappello più largo, altri invece abbracciano la definizione di “spettro”, proprio perché è molto più inclusiva.

«La sindrome di Asperger non aveva nessun senso dal punto di vista diagnostico», afferma Alice Sodi, vicepresidente di Neuropeculiar, associazione guidata e gestita da persone autistiche, «e a dirlo è stata proprio colei che aveva proposto a suo tempo di inserirla nel Dsm, Lorna Wing. Dagli studi della comunità scientifica è emerso che non c’erano gli estremi per definirla una condizione a parte rispetto all’autismo». La compromissione del linguaggio e la disabilità intellettiva – considerate discriminanti per propendere per l’una o l’altra diagnosi – non sarebbero infatti determinate dall’autismo, ma semplicemente condizioni associate a esso, in quanto entità diagnostiche a sé stanti.

«L’introduzione della diagnosi di sindrome di Asperger ha avuto effetti importanti su varie dinamiche che si sono sviluppate nella popolazione autistica e nel mondo del professionismo sull’autismo», continua Sodi. «C’è uno strumento della sociologia cognitiva, definito sociologia dell’avvertito e dell’inavvertito, che analizza i meccanismi di evidenziazione, le modalità di scelta di cosa evidenziare di un certo fenomeno per poterlo studiare. Questo funziona anche a livello dei media, che scelgono che cosa raccontare di una categoria o di una situazione per rappresentarle. Nel caso dell’autismo si sono messi in atto meccanismi di evidenziazione tricotomici: da una parte c’era l’autismo prototipico – quello kanneriano – che era considerato il vero autismo, dall’altra c’era l’autismo savant, il genio assoluto, magari anche disadattato, quindi portatore di una differenza altrettanto evidente. In questo modo, però, scompare tutto il resto della popolazione autistica, che sta in mezzo e che viene definita con aggettivi delegittimanti, come “finti autistici”, anche se rientra appieno nei criteri del Dsm – 5, compresa la soddisfazione del criterio D (che richiede che le caratteristiche causino compromissione clinicamente significativa dell’attuale funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti, ndr)».

La sindrome di Asperger, quindi, sarebbe andata a riconnotare questa porzione della popolazione autistica; «La sociologia cognitiva ci insegna però che questo non aiuta», commenta la vicepresidente, «perché stai usando un’ulteriore connotazione, quindi stai esasperando un senso di inammissibilità di quella porzione alla categoria di appartenenza. Questo meccanismo nel caso dello spettro autistico ha portato tanti effetti collaterali: c’è una grande divisione nella popolazione che si occupa di autismo, dai professionisti, all’associazionismo e alle famiglie. Molti ritengono la sindrome di Asperger inammissibile nello spettro e hanno la percezione che chi ha questa diagnosi sottragga fondi o servizi agli autistici “veri”. Dall’altro lato, invece, si è esasperato un senso di “suprematismo” nella popolazione autistica perché a chi di primo acchito ha fatto fatica ha vestire su di sé i significati dell’autismo in termini-socioculturali, la diagnosi di Asperger e la sua narrazione hanno permesso di sentirsi strano, ma in modo “figo”, rispetto a coloro che sono strani e basta. Chi afferma una cosa del genere va a radicare ancora di più l’idea che la stigmatizzazione delle persone disabili o non verbali sia tutto sommato giustificata, comprensibile o inevitabile».

Per Neuropeculiar, quindi, bisogna lavorare per l’emancipazione e i diritti di tutta la categoria autistica, senza distinzioni. Che passano anche attraverso le definizioni e il linguaggio. Non tutta la comunità autistica, tuttavia, è concorde sulla dannosità della diagnosi di sindrome di Asperger; alcuni, anzi, ritengono che sia una componente fondamentale della loro identità e conservano questa definizione, anche nei nomi delle associazioni di cui fanno parte (abbiamo provato a contattare alcune di queste persone, ma senza successo).

Anche Laurent Mottron psichiatra e professore dell’università di Montreal, esperto di fama mondiale sull’autismo, ritiene fondamentale riabilitare la diagnosi Asperger. «La maggior parte della comunità impegnata su questo tema, sia le persone autistiche che le persone che studiano l’autismo, riconosce che è stato un errore mischiare autismo e Asperger», dice. «Questo però non vuole dire che chi rientra nel secondo gruppo abbia meno bisogni e sia da considerare meno. Non è vero che “siamo tutti un po’ Asperger”: chi lavora con loro sa quanto la loro vita possa essere terribilmente difficile. Molti clinici pensano che soffrano di più rispetto alle persone autistiche, perché la loro relazione col mondo pare più complessa. Chi è autistico può essere pienamente soddisfatto del modo in cui processa le informazioni, mentre sembra che gli Asperger siano sempre leggermente infelici di qualcosa. Penso che per aiutarli dovremmo riconoscere che la loro condizione non è così frequente – ho visto cinque volte meno Asperger che autistici nella mia vita – ma è molto caratteristica».

Adattarsi, quindi, sarebbe più difficile per chi ha un funzionamento di questo tipo: nel mondo moderno – secondo il professore – si ha molta simpatia per le persone autistiche, ma per le persone Asperger c’è una teoria simpatetica legata alla narrazione all’interno dei media (le molte serie Netlix per esempio), che però non corrisponde pienamente a verità. «Chi deve effettivamente vivere con qualcuno che ha questa condizione lo trova difficile», commenta, «perché gli interessi degli Asperger sono molto ristretti». Dello stesso avviso anche Giovanni Valeri, neuropsichiatra infantile e responsabile del dipartimento dei disturbi dello spettro autistico all’ospedale pediatrico Bambin Gesù di Roma. «In Italia si continua a dire che l’Asperger è l’autismo senza compromissione di livello 1 e questo è terribile», afferma. «Chi ci lavora sa che è una condizione complessa e il livello di difficoltà può essere molto alto».

Tra gli esperti del settore, c’è anche chi si discosta da questo dibattito per affermare che non sono tanto importanti le definizioni quanto sono urgenti le azioni concrete. «Per me chiamare una sindrome Asperger o non farlo rientra nelle decisioni relative ai cambiamenti culturali che rientrano all’interno di un cambio di paradigma», dice Daniela Lucangeli, professoressa di psicologia dello sviluppo all’università di Padova. «Tutto lo spettro dei disturbi del neurosviluppo è molto cambiato nell’arco degli ultimi 20 anni. Il Center for desease control and prevention – Cdc di Atlanta mostra come dagli anni ‘80 a oggi l’indice di diffusione sia aumentato in maniera tale che si passa da un bambino ogni 10mila a uno ogni 40, con oscillazioni che vanno da uno ogni 60 a uno ogni 70 nei vari Paesi dell’Occidente. Questo aumento è in parte spiegabile dal fatto che i clinici sono diventati migliori osservatori, che conoscono meglio le sindromi, ma – per alcuni studiosi tra cui me – non del tutto. Io, insieme ad altri ricercatori, ritengo che si debba cambiare paradigma, comprendendo come alcune tipologie di disturbi vadano letti in chiave epigenetica, cioè di modifica delle strutture di adattamento, tra fattori universali di natura genetica e l’ambiente. Molti più bimbi oggi nascono con anomalie qualitative e quantitative del neurosviluppo: le ipotesi sulle cause sono moltissime e rientrano in ciò che accade nei primi 1000 giorni di vita, compresa la gestazione, durante la quale molti fattori, dall’alcool, al fumo passivo, all’inquinamento, le polveri sottili e i cambi elettromagnetici, alternano la programmazione del sistema, che in quella fase è delicatissima. Io penso che possiamo fare moltissimo per prevenire i disturbi utilizzando le informazioni scientifiche per modificare gli ambienti, informando anche i papà e le mamme».

Immagine in apertura da Pixabay

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