Al terzo giro ce l’abbiamo fatta: siamo rientrati in quel misero 14% della media italiana che riesce a ottenere un posto all’asilo nido comunale (qui la recente indagine Istat sul problema).
Sono così felice – e così incredula – che ritorno alla graduatoria su internet ogni quarto d’ora, caso mai avessi avuto una svista, o qualche perfido virus informatico avesse cancellato il nome di mia figlia, evidenziato in blu.
I blu, quelli ammessi al nido del mio quartiere nella fascia 0-12 mesi, sono dieci. In lista d’attesa ci sono altri 26 bambini. Scorro i nomi e mi domando, sinceramente solidale, come riusciranno a organizzarsi le loro famiglie.
So cosa stanno passando. La mia personale esperienza della conquista di un posto al nido assomiglia a un romanzo russo. Con la prima figlia siamo stati vittime della beffa anagrafico-burocratica: il nostro comune raccoglie le domande una volta all’anno, con scadenza irrevocabile il 31 marzo. Se il piccolo nasce, diciamo, il primo aprile, sta fermo alla casella per un anno. Secondo voi, quando è nata mia figlia?
Così arriva il mio pesciolino d’aprile e per riprendere a lavorare mi indirizzo al privato. Trovo una cooperativa convenzionata con il comune. Ha solo un piccolo problema: la convenzione riguarda il progetto pedagogico, non la sua sostenibilità economica. Il costo, per la fascia 8.30-16.30, pannolini esclusi, corrisponde esattamente al doppio della retta comunale.
Con il secondo figlio sono più speranzosa: arriva 20 mesi dopo la prima, nella domanda al comune specifico che non ho appoggi familiari e che sono una mamma lavoratrice. Nisba. Finisce in lista d’attesa e io chiamo l’ufficio nidi sconvolta: non posso mandare due figli al nido privato! Così, dopo una lunga, inutile e poco consolatoria conversazione con l’addetta, scopro che la mia condizione professionale, così come quella di tante mamme con contratti da cococo, cocopro o qualsiasi altro che non preveda una sede di lavoro, viene considerata “lavoro domestico”. Tradotto: se sei a casa, il bimbo te lo spupazzi da sola.
Nella giungla dei regolamenti comunali di settore, questo è un problema molto frequente e porta con sé un paradosso: è vero che il tuo ufficio è tra cucina e salotto, ma è comunque un lavoro. E rischi di perderlo perché non sai a chi affidare il bambino. Altro scenario molto frequente è quello della madre che viene rubricata come “casalinga” ma che di fatto è alla ricerca di un lavoro: come trovarlo, se il piccolo non può essere accolto, almeno per alcune ore, al nido?
Tutto questo spiega le impressionanti statistiche Istat sul numero di donne che escono dal mercato del lavoro al momento della maternità: il tasso di occupate diminuisce man mano che aumentano i figli (passano dal 64,5% al 59% col primo bambino, arrivano al 50,6% con due figli e “crollano” al 35,6% con tre o più). Con enorme sconforto, penso alla grande perdita di talenti, esperienza, creatività che il nostro Paese potrebbe vantare.
(PS: L’anno scorso, il mio comune ha cambiato il regolamento ed equiparato i contratti flessibili al lavoro dipendente. Quando ho fatto la domanda per la mia terza figlia, quella che è stata ammessa, mi sentivo comunque arresa, sfinita, impotente. Come quando ti rapporti a un evento geologico: è troppo più grande di te per sapere come andrà).
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