Volontariato

Armi e legittima difesa? Un’altra idea di sicurezza, realistica ed efficace

di Pasquale Pugliese

Mentre negli USA mezzo milione di studenti protestano contro l’industria delle armi e la “libertà” di armarsi promossa dal complesso politico-militare-industriale e – contemporaneamente – il Senato della Repubblica italiana elegge come proprio presidente una signora che in campagna elettorale ha promesso di presentare come prima proposta di legge quella sulla “legittima difesa”, cioè sulla libertà di armarsi e uccidere, mi pare utile diffondere l’intervento svolto lo sorso 19 febbraio al convegno di Vicenza su “Insicurezza, rancore, farsi giustizia: dentro l’Italia che si arma” – organizzato da OPAL e Rete Italiana Disarmo, in occasione della fiera delle armi Hit Show – al quale sono stato invitato insieme a Riccardo Iacona e Giorgio Beretta. Già pubblicato su Azione nonviolenta, nel numero cartaceo di gennaio-febbraio 2018

In un episodio della serie tv Black Mirror si racconta di un esercito ai cui militari viene impiantato nel cervello un dispositivo elettronico, detto “maschera”, che trasforma, nella loro percezione, coloro che vengono indicati dai comandanti come i nemici – non un esercito avversario ma civili che hanno una particolare composizione del dna – in mostri: i soldati, dal momento che impiantano la “maschera”, non ricordano nulla della vita precedente e danno la caccia spietata a queste persone, chiamate “parassiti”, che a loro appaiono mostri tante nelle fattezze fisiche quanto nei suoni che emettono… Per una serie di ragioni, il dispositivo mentale di un soldato si inceppa e il militare – riconoscendo nelle sue vittime gli esseri umani e comprendendone la lingua – si rende conto di ciò che sta facendo e si rifiuta di proseguire. A quel punto lo psicologo dell’esercito gli spiega che durante la prima guerra mondiale solo il 15% dei soldati sparava davvero ai nemici perché inibito dalle caratteristiche umane dell’avversario e su questo “difetto di umanità” l’esercito ha lavorato, per disinibire la violenza dell’uomo sull’uomo: con le normali tecniche di addestramento si era riusciti ad arrivare al 75%, ma non era ancora sufficiente: adesso il dispositivo (la “maschera”) – continua lo psicologo – che de-umanizza e mostrifica l’altro, garantisce il 100% del risultato. Ossia la disponibilità totale ad uccidere, senza se e senza ma.

Si tratta, in realtà, dei ben conosciuti dispositivi di de-umanizzazione che se nella realtà non sono ancora elettronicamente impiantati nel cervello, sono stati invece – da sempre – impiantati ideologicamente nella nostre menti: dal razzismo, alla colonizzazione, al nazismo, alla pulizia etnica, fino alla tentata strage di Macerata… La storia dell’umanità è anche la storia della sottrazione delle caratteristiche umane a coloro che consideriamo, per qualsiasi pretesto, differenti da noi e l’attribuzione ad essi di caratteristiche aliene che li rendono nemici. Mostruosi capri espiatori da combattere. Meccanismi studiati da tempo dagli psicologi sociali – da Stanley Milgram a Albert Bandura a Philip Zimbardo – che hanno come conseguenza il disimpegno morale e l’auto-legittimazione a usare la violenza. Sono i meccanismi che hanno agito abbondantemente durante la caccia agli ebrei da parte dei nazisti. Quando si interiorizza il disimpegno morale nei confronti di una categoria di persone – accomunate tra di loro per una qualunque motivazione: religiosa, colore della pelle, dna ecc – ecco che tutto diventa possibile.

Uno dei più atroci pogrom della seconda guerra mondiale avvenne il 10 luglio del 1941 a Jedwabne, un villaggio della Polonia nord-occidentale, non da parte delle SS, ma da parte dei concittadini non ebrei nei confronti di quelli di religione ebraica, da sempre abitanti dello stesso villaggio: ossia dei vicini di casa da generazioni. L’anti-semitismo si era talmente diffuso che gli abitanti di quel villaggio decisero di non aspettare i nazisti, ma di mettersi avanti da soli. A partire dalle prime ore del mattino, gli abitanti di Jedwabne e del circondario incominciarono a cacciare gli ebrei dalle loro case spingendoli verso la piazza. Lì dovevano tagliare l’erba che cresceva tra le pietre del selciato. Gli abitanti erano armati di bastoni, mazze ed altri attrezzi – racconta il giudice che rappresentava l’accusa nel processo succesivo alla guerra (citato in “C’è chi dice no” di Amedeo Cottino, Zambon, 2015) – Subito dopo tutti vennero uccisi e i loro corpi gettati all’interno del fienile. Il gruppo più grande, composto anche dalle donne, dai banbini e dai vecchi, venne stipato in una capanna di legno con il tetto di paglia sul quale venne versato del petrolio a cui venne dato fuoco. Episodi simili sono avvenuti anche nei Balcani solo vent’anni fa e avvengono tutt’ora in molte parti del pianeta. Un’idea tragica e folle di sicurezza fondata sull’esclusività etnico/culturale/religiosa.

Siamo condannati a questa deriva? Non necessariamente: anche durante la seconda guerra mondiale c’è stato chi – nonostante l’occupazione nazista e le leggi razziali – non ha praticato il disimpegno morale ed anzi ha costruito una sicurezza differente, fondata sulla solidarietà e la convivenza, cioè una sicurezza per tutti. C’è l’esempio grande della Danimarca, dove i cittadini non ebrei, con una straordinaria rete di solidarietà clandestina e resistente, salvarono il 98% degli ebrei danesi. Una modalità di resistenza civile fondata sul principio che o la nazione si salva insieme o perisce insieme, senza distinzioni religiose. Non a caso Hannah Arendt scrive ne La banalità del male che questo esempio di resistenza civile dovrebbe essere studiato in tutte le facoltà di scienze politiche del mondo, perché dimostra la forza della nonviolenza. Ma c’è anche l’esempio più piccolo, ma particolarmente significativo, del villaggio francese di Chambon sur Lignon – paragonabile per dimensioni a quello polacco – i cui cittadini, guidati dai pastori André Trocmé e Edouard Theis, a partire dal 22 giugno 1940 (data in cui il maresciallo Petain firma l’armistizio con i nazisti, impegnandosi ad applicare in Francia le leggi razziali) nascondono e salvano da nazisti e fascisti circa 5.000 tra ebrei ed antifascisti. Questi cittadini, sfidando il potere filo-nazista, rigettano la definizione dell’altro come “nemico”, rifiutano la logica del capro espiatorio, affermando che tutti hanno diritto ad essere protetti dal pericolo e dalla persecuzione. Si manifesta un’altra idea di sicurezza, fondata sulla solidarietà e sulla convivenza

Questa lunga premessa nelle viscere della storia del ‘900 per dire che ci sono due vie alla sicurezza, una è quella che porta diritti anche alla tentata strage di Macerata del 3 febbraio scorso settimana scorsa: è la via della “sicurezza” attraverso l’annientamento dell’altro, del fare “pulizia” e solitudine intorno a sé. La china che stiamo prendendo, rispetto alla libertà di armarsi in nome della sicurezza individuale, risponde a questo presupposto ideologico, estremamente semplice, anzi infantile: io mi sento sicuro nella misura in cui sono nella condizione di eliminare fisicamente chiunque mi appaia, per qualsiasi ragione, come pericoloso. Come lo riconosco? Dal suo essere differente da me. Tuttavia, questo modello di sicurezza è immaginario in quanto totalmente contro-produttivo, come ci insegna la parabola USA: ci induce ad armarci per colpire i nemici, ma genera stragi per armi da fuoco di innocenti “amici”, minando la sicurezza di tutti. Per esempio, mentre in Iraq, contro i “nemici”, dal 2003 ad oggi sono morti circa 4.500 soldati statunitensi, negli USA ci sono ogni anno circa 30.000 cittadini morti da fuoco “amico”, cioè colpiti da altri cittadini statunitensi! La più sanguinosa delle guerre per il popolo USA.

Ma c’è anche l’altra via alla sicurezza – quella che hanno sperimentato i danesi e i cittadini di Le Chambon sur Lignon – che non solo è la via dell’umanità, ma è anche l’unica efficace e realistica: la sicurezza di ciascuno dipende dalla sicurezza di tutti. E non prevede l’uso delle armi: ogni anno – per esempio – incontro centinaia di volontari in servizio civile che, rispetto al tema della “difesa della patria” ed alle relative “minacce”, citano come minacce reali alla propria sicurezza l’ignoranza, la disoccupazione, le disuguaglianze, l’inquinamento, la precarietà, la solitudine, il futuro… Da nessuna di queste minacce ci si può difendere con più armi, in tutte con più solidarietà e con migliore convivenza. Che cosa costruisce, allora, la buona convivenza? Io credo che sia la nonviolenza, che Aldo Capitini – di cui quest’anno ricorre il cinquantesimo della morte – definiva così: nonviolenza è apertura (cioè interesse, appassionamento, amore) all’esistenza, alla libertà ed allo sviluppo di ogni essere. Apertura, anziché chiusura, rivolta ad ogni singolo essere, senza rinchiudere nessuno in uno schema escludente: immigrati, profughi, spacciatori…

Questo non significa immaginare utopistiche relazioni umane senza conflitti, ma piuttosto diventare competenti nella capacità di trasformare i conflitti a tutti i livelli – dal micro al macro – con la nonviolenza, ossia (per citare anche Johan Galtung) con “empatia” e “creatività”. Empatia e creatività sono le competenze che hanno messo in campo i cittadini di Chambon sur Lignon ed il popolo danese, nella loro maggioranza. Empatia è la capacità di vedere ciascuno nella sua individualità estraendolo dalle generalizzazioni, cercando di comprendere anche il suo punto di vista, decentrandoci dalla centratura assoluta su noi stessi; creatività è la capacità di trovare soluzioni che escano dai modelli precostituiti della violenza, ai quali veniamo addestrati culturalmente, fare uno scarto per trovare vie d’uscita inclusive e spiazzanti. Perchè ciò sia possibile è necessario fare un grande investimento sull’educazione alla nonviolenza, nelle scuole di ogni ordine e grado, a partire dalla formazione dei formatori. Non come materia aggiuntiva da aggiungere al curricolo, ma come approccio trasversale all’insegnamento ed all’educazione, nei metodi e nei contenuti, per aiutare la formazione di cittadini competenti nell’arte dello stare-al-mondo-con-gli altri.

Questa proposta fa parte, tra le altre, del “Decalogo” che ci ha lasciato Nanni Salio – il presidente del Centro studi Sereno Regis – nel suo ultimo articolo su Azione nonviolenta (“I due terrorismi e le alternative della nonviolenza”, nov-dic 2015), nel quale cercava una via d’uscita nonviolenta da “i due terrorismi”. Dopo gli attentati di Parigi del novembre del 2015, di fronte al terrorismo degli Stati, che viene chiamato guerra, e a quello dei terroristi che usano le modalità della guerra – e si alimentano reciprocamente – Nanni Salio ricordava che la via di uscita sta nel lavorare, con lungimiranza, a progetti di medio e lungo periodo, tra il livello micro e il livello macro, proponendo questo decalogo:

1. Costituire e addestrare Corpi civili di pace con compiti di mediazione, interposizione e prevenzione.
2. Riconvertire le industrie belliche e l’intero complesso militare-industriale in industrie civili e centri di ricerca per la pace e la sperimentazione di metodi di risoluzione nonviolenta dei conflitti.
3. Promuovere percorsi di educazione alla pace e alla nonviolenza sia nel mondo della scuola sia nella società
4. Riconversione ecologica e intellettuale dell’economia mondiale verso forme di economia ispirate al paradigma gandhiano della semplicità volontaria.
5. Utilizzare al meglio le attuali capacità di comunicazione su scala globale per costruire un “giornalismo di pace” alternativo al “giornalismo di guerra”, ossia di paura e di odio;
6. Dialogo tra le religioni per riscoprire il comune fondamento basato sulla nonviolenza. Far conoscere in particolare le componenti nonviolente presenti in ciascuna religione.
7. Orientare la cultura scientifica e la tecnoscienza verso la cultura della nonviolenza.
8. Anche la cultura artistica, in tutte le sue principali manifestazioni, può essere orientata verso lo sviluppo di una creatività che favorisca la ricerca di soluzioni nonviolente ai conflitti umani.
9. Affrontare la grave crisi delle democrazie rappresentative e partitiche occidentali, promuovendo la partecipazione attiva e diffusa e l’autogoverno della cittadinanza.
10. Considerare i due terrorismi come una malattia mentale, una patologia mortale dell’umanità

Si tratta di un vero programma complesivo per la sicurezza globale. Non è un caso che diversi di questi punti siano oggi parte della campagna Un’altra difesa è possibile per la difesa civile non armata e nonviolenta, l’unica difesa davvero legittima.

Infine, un ultimo dato interessante. Secondo la combinazione di indicatori utilizzati per calcolare l’ Happy Planet Index, l’Indice di felicità del pianeta – ossia la percezione di benessere dei cittadini, l’aspettativa di vita, la presenza di disuguaglianze e l’impronta ecologica – anche per il 2017 il Paese più “felice” al mondo è risultato essere la Costa Rica. Ebbene non è un caso che 70 anni fa questo paese centro-americano abbia rinunciato completamente alle forze armate e investito le risorse liberate in servizi sociali, educativi, sanitari e nella protezione dell’ambiente. Ossia in vera sicurezza per tutti. Nella stessa graduatoria gli USA sono al 108esimo e l’Italia e al 60esimo, praticamente a metà strada tra la Costa Rica e gli USA: sta a noi decidere se avvicinarci all’una o agli altri.

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