Cultura

Arafat e il Vaticano: una certa idea della Palestina

Vita ripropone ampi stralci dell'articolo apparso su Le Monde di Henri Tincq, giornalista e saggista cattolico

di Joshua Massarenti

“C’era più di un legame tra Yasser Arafat e Giovanni Paolo II, e le reazioni di simpatia espresse dal Vaticano e della maggior parte delle Chiese dopo la morte del rais avevano il merito della sincerità”. Inizia così, sulle pagine del quotidiano francese Le Monde dedicate alle analisi di approfondimento, l’articolo di un suo giornalista di punta, Henri Tincq, in riferimento all’ultimo, caloroso, saluto del mondo vaticano all’ex presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Yasser Arafat. Sullo sfondo di questo affettuoso congedo, rimangono i ricordi di vent’anni di “reciproca amicizia” tra due grandi protagonisti della storia mediorientale. Timoroso di una Palestina “senza cristiani”, “il presidente dell’Autorità palestinese ha da sempre nutrito una stima reale per il papa” ricorda Tincq. In una sorta di processo di identificazione umana e politica, Arafat rimase impressionato da un Giovanni Paolo II “anch’egli figlio di una nazione occupata, lottatore infaticabile, difensore della sovranità della Pologna”. A detta del rabbino Abraham Weiss, c’era un fossato forse incolmabile tra “il principe del terrore” (Arafat) e “il principe della pace” (il Papa), ma “in vent’anni, i due uomini si sono incontrati una dozzina di volte. Una sorta di record” sottolinea Tincq. La prima visita di Arafat in Vaticano risale al 15 settmbre 1982, “allorquando non era ancora il capo dell’OLP”. Ma tanto bastò per suscitare le ira di Israele contro la Chiesa cattolica. Imperdonabile agli occhi di Tel Aviv, l’accoglienza del Papa a un membro dell’OLP la cui Carta prevedeva ancora di “annientare” Israele e di “eliminare ogni presenza sionista e imperialista” in Palestina. Le parole più dure furono proncunciate da Menahem Begin, allora primo ministro di Israele che accusa il Papa di aver stretto “una mano sporca dio sangue di bambini ebrei innocenti”. Ma sei anni dopo (1988), allorquando il Papa aveva finalmente mosso nell’86 i suoi primi passi “dal Vaticano alla sinagoga di Roma”, “Giovanni Paolo II crea di nuovo lo stupore. Per la prima volta dalle crociate, viene nominato un prete palestinese, Michel Sabbah, alla funzione di patriarca latino di Gerusalemme”. Se “i suoi predecessori italiani risultarono incapaci di incidere sul conflitto in corso” sostiene il giornalista francese, “oggi Monsignor Sabbah” rimane la personalità cristiana più attiva in Medioriente”. Non a caso, questa personalità accusata di essere filo-araba, “era tra le prime file dei funerali di Arafat”. Sul versante opposto, quello israeliano, i rapporti non furono dei più facili. Tincq parte dal presupposto che “la diplomazia romana è da molto tempo proaraba”. A ricordalo, è il silenzio del Concilio VAticano II (1962-65) sul conflitto israelo-palestinese, oppure la promessa fatta dai patriarchi delle Chiese d’Oriente che non entreranno in Siria, Libano Giordania e Egitto se il Concilio parlerà degli ebrei e della Shoah. “Certo, con la dichiarazione Nostra aetate del 1965 si aprirà un dialogo con il giudaismo, ma il mutismo prevarrà su Israele e la Shoah”. Nel 1994, sotto Giovanni Paolo II, il Vaticano riconosce lo Stato di Israle. Una prima rottura alla quale seguirà “l’audacia con la quale il Papa visita nel 2000 Gerusalemme per incontrare tutti i leader israeliani, ma anche Arafat a Bethlemme e i campi di rifugiati di Deiché”. I timori della Segreteria di Stato del Vaticano (ovvero la diplomazia vaticana) vengono scavalcati. Anticipando la Storia, Giovanni Paolo II ricorderà sempre a Arafat che “il diritto dei palestinesi a una patria è condozionato al diritto degli Israeliani alla sicurezza e alla tranquillità con i suoi vicini arabi”. Nei fatti, il Papa “protesta con gli “accerchiamenti” ripetuti di Gerusalemme. Condanna con la stessa intensità gli attentati-suicidi (palestinesi, ndr) e le rappresaglie militari (israeliane, ndr). Firma accordi diplomatici con l’Autorità palestinese, così come lo aveva fatto con Israele. Si ribella contro l’occupazione militare di Betlemme nel 2002, contro le misure di intimidazione destinate ai preti e ai religiosi in Israele, contro il muro di sicurezza in costruzione in Cisgiordania”. “La regione non ha bisogno di muri, ma di ponti”. Tincq ricorda questa storica sentenza del Papa, segno delle sue pronfonde e sincere preoccupazioni sui rischi che corre una pace tanto auspicata, ma non solo. Papa Giovanni sa bene che anche i cristiani sono sotto tiro. “La Terra Santa non conta più che 300 000 cristiani, nei territori palestinesi, a Gerusalemme, in Giordania. E cioè il 2% della popolazione in Cisgiordania, a Gaza e Gerusalemme. Nella città santa dove è morto il Cristo, il loro numero è stato diviso per tre dal 1948. Oggi sono appena dieci mila”. “Queste minoranze cristiane sono divise tra israeliani che li accusano della loro arabità e Palestinesi musulmani nei confronti dei quali i cristiani devono continuamente provare la loro lealtà filoaraba”. Il rischio è enorme perché con il proseguimento del conflitto e un’economia sempre più in crisi, “continueranno a emigrare. I pellegrini stranieri verranno a Gerusalemme, Betlemme o Nazareth soltante per venerare reliquie e vecchie pietre”. “Arafat era conscio di un tale rischio” sostiene Tincq. Non a caso, “non ha mai smesso di ricevere delegazioni di Chiese, cattolica, luterana, anglicana, ortodossa, giunte a Ramallah durante il suo periodo di reclusione”. In altri casi, Arafat “si circondava di personalità cristiane, concedeva loro responsabilità politiche, si mobilitava contro il progetto di costruzione di una moschea nei pressi della chiesa dell’Annuncizaione a Nazareth” e così via. Dopo la sua morte, “i cristiani non sono meno inquieti dei palestinesi. Di fronte al terrorismo, il nazionalismo, che ha tanto unificato nel corso della Storia le comunità cristianan e musulmana, può ancora coprire il suo ruolo federatore?” s’interroga Tincq che poi conclude: “Il timore che sta divorando i cristiani (e probabilmente Giovanni Paolo II, ndr), è che il futuro Stato palestinese sia tentato di attribuirsi, al pari di Israele, una legittimità religiosa esclusiva, quella dell’immensa maggioranza musulmana”.


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