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Aquila ground zero

La scommessa dell'Aquila: uscire dall'emergenza grazie al terzo settore. Vinta o persa?

di Riccardo Bonacina

A quattro mesi dal sisma che scosse l’Abruzzo, un viaggio di Riccardo Bonacina tra le macerie visibili e invisibili della città e del tessuto sociale (dal numero 31/32 del 21 agosto 2009)

In un convegno di geodinamica che si tenne a L’Aquila dal 4 all’8 settembre del 1887, gli studiosi invitarono a “costruire meglio” e con più attenzione in una città che dal 1280 (il primo di cui si ha documentazione) ad oggi vive eventi sismici ogni poche decine d’anni. Mai appello e mai storia furono più inascoltati. ?L’Aquila arriva al 6 aprile 2009 non avendo mai recepito non solo i dati della storia, i racconti dei più vecchi e gli appelli che arrivano dai secoli scorsi, ma addirittura avendo ignorato i dati dell’Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia che nella mappatura della pericolosità sismica in Italia sentenziò per la città il massimo rischio. Da cui la conseguente deliberazione del governo: ordinanza n. 3519 del 28 aprile 2006, che recepisce la mappatura del rischio sismico dell’Ingv dove la totalità della provincia viene classificata di “rischio 1”.

La Regione Abruzzo non recepì: modificare il grado di rischio sismico avrebbe comportato più costi per l’edilizia, più spese di costruzione, più ferro, più cemento. E criteri per costruire edifici e palazzi con maggiore rigore tecnico edilizio e vincoli più restrittivi. Aumentare il rischio sismico voleva anche dire, per il settore immobiliare, dover abbassare i prezzi per metro quadro degli appartamenti non costruiti a norma. Meglio lasciar perdere in una provincia che vive di rendita immobiliare, quella potente delle 400 imprese edili del territorio (300 imprese iscritte all’Ance e un altro centinaio fuori, una concentrazione impressionante) e quella molecolare, individuale, sviluppatasi grazie a decine di migliaia di studenti fuori sede in cerca di un alloggio.

Le 3.32 del 6 aprile

Così, nell’incoscienza, si arriva alle 3.32 dello scorso 6 aprile, quando una scossa di magnitudo 5.8 della scala Richter con una profondità di 8,8 chilometri e un’accelerazione spaventosa che sviluppa una forza devastante, collassa l’intera città. Quella notte, quasi 100mila persone escono di casa in 20-30 secondi. In 40mila abbandonano la città nel giro di 36 ore. In pigiama e con le poche cose che sono riuscite a recuperare. Chi aveva un mezzo in maniera spontanea, coatta per i più sui pullman organizzati dalla Protezione civile e indirizzati verso la costa adriatica. Pochi giorni dopo, al netto degli studenti fuori sede (oltre 13mila su 27mila iscritti all’università) praticamente tutta la popolazione dell’Aquila è sfollata: le persone alloggiate dalla Protezione civile sono 66.353.

Il centro storico dall’8 aprile è chiuso e presidiato dall’esercito che ne tutela la sua integrità di città fantasma. Già un’intera città, non un borgo, il suo cuore pulsante, i negozi, i portici, la piazza del Duomo, persino il simbolo dello Stato (il Palazzo del Governo sede della prefettura, immagine emblema del terremoto) si fissano nella terribile istantanea che nessuna mano umana ha mai scattato. Una catastrofe dalle proporzioni record nel terzo millennnio: 300 morti, 1.500 feriti, un’intera città sfollata e nella diaspora, istituzioni locali senza più sede, attività produttive compromesse, reti infrastrutturali distrutte, reti familiari e sociali frantumate.
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