Formazione

Aprite bene il duemila4

Oggi che possiamo scegliere, ci sentiamo tutti più liberi, ma cadiamo vittime di un doppio mito.

di Stefano Zamagni

La festa del decennale è sempre un evento importante e denso di significati. Lo è ancora di più quando il ?festeggiato? è un settimanale come Vita, al quale va la mia simpatia e la mia ammirazione.
?Dieci anni che hanno cambiato la nostra vita? è un tema, a dir poco, inusuale. Lo affronterò da un?angolatura altrettanto inusuale, quella della evoluzione della nostra condizione di vita. Due miti specifici hanno contribuito a caratterizzare quest?ultimo decennio. Il primo è quello che possiamo chiamare il mito tecnologico: tutto ciò che è possibile va realizzato perché genera valore. Quanto a dire che tutto ciò che si può fare si deve fare. Si tratta di una posizione ormai così diffusa che non mette conto ricercarne qui la genesi filosofica. Conviene piuttosto illustrare il paradosso cui essa conduce. Si tratta del paradosso della scelta.
Ogniqualvolta vi sia una decisione da prendere nasce un dubbio, e il dubbio può ?pietrificare?, come con efficacia illustra la storia della testa della Medusa: tagliare (de-cidere) la testa è quanto occorre per non restare paralizzati. Ora, fintanto che l?indecisione riguarda la scelta del mezzo conveniente per raggiungere lo scopo, la ragione, assistita dalla tecnica, è in grado di sbloccare la situazione.
Come l?apologo dell?asino di Buridano insegna, se l?asino affamato, posto di fronte a due mucchi equivalenti di fieno, avesse fatto ricorso ai canoni della razionalità (strumentale), non si sarebbe certo lasciato morire di fame per la sua incapacità di decidere. Altro è però il caso quando il problema di scelta riguarda i fini stessi dell?azione. In situazioni del genere, quando cioè si tratta di scegliere tra fini alternativi, la ragione e il ricorso alla ?techné? non sono più un rimedio sicuro alla paralisi; anzi, possono aggravarla.
A ben considerare, è qui la radice dell?attuale ?disagio di civiltà?, per usare un?espressione che fa riferimento a una celebre opera di Freud. L?intelligenza, infatti, anziché permetterci di paragonare e scegliere, tra varie opzioni di valore, la migliore, risulta paralizzante. A differenza dei loro antenati che non dovevano scegliere continuamente e le cui grandi scelte avvenivano una volta nella vita, quando non venivano anche queste predeterminate, l?uomo d?oggi è sottoposto a decisioni continue che riguardano, virtualmente, tutti gli ambiti della vita: la scelta professionale; i rapporti affettivi; la politica; l?inserimento nella società civile. È tale situazione a creare il paradosso della scelta: quando parliamo di scelta sembriamo riferirci a uno spazio di libertà, ma al tempo stesso siamo sempre più costretti a scegliere. La scelta, situazione che postula libertà, diventa una sorta di necessità, perché non possiamo non scegliere; il non scegliere è esso stesso una scelta.
Eccoci al punto centrale: quando il problema della scelta consiste nel decidere tra mezzi alternativi per raggiungere un determinato fine – quando, cioè, in termini kantiani, la domanda che attende risposta è del tipo “che cosa devo fare per ottenere ciò che voglio” – il ricorso alla ragion tecnica è di per sé sufficiente. A essa chiediamo l?algoritmo risolutivo. Ma quando la domanda diviene “che cosa è bene che io voglia”, vale a dire quando si tratta di scegliere tra fini diversi, la necessità di disporre di un criterio di scelta fondato sulla categoria del giudizio di valore diviene irrinunciabile.
Nessun progresso tecnologico potrà mai fornirmi il criterio di valore sulla cui base scegliere il mio piano di vita. Comprendiamo ora la portata dell?insidia che il mito tecnologico va diffondendo: far credere che l?avanzamento delle conoscenze tecnico-scientifiche sia sufficiente a risolvere ogni problema di scelta. E dunque che, in fondo, tutto possa risolversi con l?attesa. Sappiamo invece che tale insidia conduce a un esito certo: che l?esistenza intera viene vissuta senza scopo e significato.
Il secondo mito è quello dell?individualismo assiologico. L?idea fondamentale che tale mito veicola è che la realizzazione del potenziale di vita del soggetto dipende unicamente dai suoi sforzi e dalle sue abilità. Si rifletta al significato simbolico degli odierni messaggi pubblicitari rivolti ai giovani: “Il futuro è nelle tue mani”; “Devi diventare imprenditore di te stesso”; “Il tuo successo dipende dal tuo modello di consumo”, e così via. Si ammette bensì che, per raggiungere i suoi scopi, l?individuo debba entrare in rapporto con altri, ma ciò trae ragione solamente da considerazioni di convenienza, per ottenere più consenso o più potere.
Ma se il mio stare in rapporto con l?altro resta pura strumentalità, non uscirò mai da quella ?insocievole socievolezza? di cui parla Kant. Con quale esito? Che non riuscirò mai ad imboccare una strada al termine della quale c?è la mia piena realizzazione, dal momento che è la relazione con l?altro – una relazione nella quale l?altro è percepito e trattato come persona e non come mero strumento – che vale a svelarmi la mia identità personale.
Generalizzando un istante, ciò significa che ho bisogno dell?altro per scoprire che vale la pena che io mi conservi; anzi, che fiorisca nel senso dell??eudaimonia? aristotelica. Poiché abbiamo bisogno del medesimo riconoscimento, io agirò nei confronti dell?altro come davanti a uno specchio. La realizzazione del sé è il risultato di tale interazione. La risorsa originale che posso mettere a disposizione di chi mi sta di fronte è la capacità di riconoscere il valore dell?altro all?esistenza, una risorsa che non può essere prodotta se non viene condivisa. È importante prendere atto di ciò che implica il riconoscimento dell?altro: non solo del suo diritto a esistere ma anche della necessità che esista perché possa esistere io, in relazione con lui.
Invero, una delle scoperte più intriganti di questi ultimi anni è che la crescita del reddito non solo non porta sempre a un aumento della felicità, ma addirittura può condurre a una sua diminuzione. Il fatto è che la felicità non proviene solo dai beni e servizi che il denaro è capace di comprare. Il denaro serve sì, ma ci sono altre ?cose? che servono pure e che però non possono essere ?comprate?. Di qui il paradosso per cui abbiamo sempre più ricchezza, ma siamo sempre meno felici, perché per conseguire il reddito necessario per comprare quantità crescenti di quei beni siamo costretti a sacrificare i rapporti interpersonali, in famiglia, nella società civile, nell?azione volontaria. Ma utilità e felicità non sono la medesima cosa, non si coimplicano. Perché l?utilità è la proprietà della relazione tra l?essere umano e la cosa (e infatti l?utilità è la proprietà dei beni); la felicità, invece, è la proprietà della relazione tra persona e persona. Il tradimento dell?individualismo sta tutto qui: far credere che per essere felici basti aumentare l?utilità e dunque il consumo o il possesso di cose (ivi incluse le persone ridotte a cose). Eppure, mentre si può essere dei massimizzatori di utilità in solitudine, per essere felici bisogna almeno essere in due, meglio se si è in tanti.
Contribuire a cancellare dal dibattito culturale questi miti, mostrandone la irriducibile falsità, è un compito che Vita si è assegnato. L?augurio è che Vita possa continuare ad assolverlo con coerenza e tenacia. Senza lasciarsi mai scoraggiare: lo scoraggiamento è quanto i potentati di turno massimamente desiderano, per poter ?inquadrare? gli scoraggiati secondo i propri disegni.

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