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Anteprima. Lettera aperta alla gente d’Israele

“Ho visto negli occhi la paura del domani”, anticipazione dell’intervento di Marco Revelli pubblicato integralmente su Vita magazine in edicola

di Marco Revelli

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Quello che mi aveva colpito fin dai primi momenti dopo l?atterraggio, dai primi contatti con i nostri custodi, non era solo la violenza che si avvertiva, palpabile, nell?aria. La sensazione di un luogo avvelenato dalla violenza, dal ricordo della violenza, e dalla sua minaccia. Né solo quello che si avvertiva e si sapeva accadere ai corpi, là, dove avremmo voluto andare e non abbiamo potuto: i corpi spezzati dalle esplosioni quotidiane a Gerusalemme, a Netanya, ad Haifa; i corpi umiliati dalla segregazione, schiacciati sotto le macerie delle case, seviziati, trasformati in fragili bersagli a Ramallah, a Nablus, a Jenin?
Quello che mi aveva afferrato fin dal primo momento, e non mi avrebbe lasciato più, orribile e irreparabile, era soprattutto quanto era avvenuto alle menti. Chiuse intorno al proprio dolore e al proprio timore. ?Murate dentro?: raggelate intorno a un senso, come dire?, ?metafisico? di fine, di estinzione minacciata che finiva per invadere la totalità dell?essere, per esplodere nella mente e per occuparla per intero, senza lasciare spazio all?osservazione dell?altro.
Questo in fondo ci avevano comunicato i volti fermi e gelidi, gli sguardi carichi di disprezzo, persino di odio, delle giovani addette alla sicurezza dell?aeroporto, nelle brevi ore della nostra ?detenzione?: ragazzine di 18, 19 anni, con l?espressione ancora dell?adolescente, qualcuna della bambina, ma la consapevolezza da adulti, che si muovevano in quello spazio carico di tensione e di responsabilità con gesti sicuri ed essenziali da zona di guerra.
Questo ci aveva ripetuto l?ostinato muro di silenzio degli uomini che ci perquisivano minuziosamente, e spintonavano qua e là, come pacchi ingombranti di cui sbarazzarsi il più presto possibile, e la loro tenace resistenza a rispondere alle nostre profferte di ?pace?, alla dichiarazione delle nostre ?buone intenzioni?. Ci dicevano che tra noi e loro s?era scavato un abisso di ?condizione umana? incolmabile. Tra noi con le nostre contingenze relative, i nostri lussi esistenziali, la nostra acquisita sicurezza all?esistenza, e loro con i loro assoluti, le loro prospettive mortali, il loro destino estremo e incerto. Noi, che dopo aver ?giocato? un po? con i nostri ideali e i nostri mitizzati diritti umani, saremmo ritornati indietro (a poco più di un?ora di volo), tra i ?salvati? da sempre, tra coloro per cui l?esistenza è un dato acquisito, e loro, che sarebbero rimasti lì, nell?universo del rischio estremo, tra i possibili (in ogni istante) ?sommersi?.
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Uomini terrorizzati che terrorizzano. Uomini in preda a un mortale ?senso della fine? che finiscono così per accelerare la fine di ogni senso. Quando al termine della notte, sotto la pancia dell?aereo dove ci avevano scortato come clandestini, il responsabile della squadra di polizia cui avevo sentito il dovere di stringere la mano e di augurare un “arrivederci in better days”, mi ha risposto, con espressione sincera, che lui non sapeva se avrebbe avuto ancora “altri giorni” nel suo futuro, ho creduto di capire cosa si agitasse sotto la facciata apparentemente efficiente e razionale di quella macchina militare. Quale tragedia esistenziale ci sia dietro la tragedia storica di Israele e della Palestina.
Israele mi è apparso, allora, come un Paese, una società, un popolo, che si percepisce sull?orlo della fine. Che avverte e rappresenta se stesso come esposto a un rischio estremo e definitivo. Non ha importanza che questa paura sia razionalmente poco fondata: che l?Occidente non permetterebbe mai un tale esito; che l?esercito di cui quel Paese dispone è tra i più forti del mondo; che possiede l?arma nucleare; e così via. Conta il fatto che le menti sono invase da quella paura, e che sulla base di essa si struttura, là, il rapporto con l?Altro. Con ogni Altro, avversario o alleato critico, nemico giurato o antico amico, in un meccanismo perverso che finisce per impedire, sul nascere, quel fondamentale esperimento relazionale che consiste nel tentativo di guardare se stessi con l?occhio dell?altro, anche dell??altro radicale?, per sostituire a ciò l?assoluta autoreferenzialità. L?ossessione della solitudine estrema: del ?poter contare solo sulle proprie forze?, selezionando come ?nemico? chiunque non si identifichi con le proprie ragioni. Chiunque non sia identico a sé.
A questo punto hanno lavorato, sulle anime prima che sui corpi, questi mesi di terrorismo suicida nelle strade delle città: fino a interiorizzare l?idea della morte. A costituirla in ?forma mentale?, e a innescare un meccanismo (di replica, di ossessione, di ?programma d?azione?) che, se non verrà, con rapidità, disinnescato è destinato, temo, ad accelerare l?autodistruzione dell?identità stessa, e di conseguenza dell?esistenza, di Israele. A provocare, secondo un nesso di causalità perverso e imprevedibile, l?inveramento del programma massimo di quel terrorismo che esso, senza la partecipazione attiva delle sue stesse vittime, non avrebbe mai potuto realizzare.
In questo sta il carattere tragico in senso proprio della situazione: quello per il quale, nello scontro irrisolvibile tra due ?ragioni?, è la vita stessa (e le sue superiori ?ragioni?) a venir sacrificata. E per cui non si dà (più) soluzione ?politica?, via d?uscita razionalmente negoziata, perché lì la parola pare essere passata a elementi più profondi, più ?elementari?, di quelli di cui è intessuta la politica. Lì la politica, come la società, come la cultura, sembrano essere state via via erose senza residui, fino a lasciare allo scoperto, non più mediata, la pura contrapposizione tra ?nuda vita? e ?tecnica di potenza?, tra Martirio e Forza militare: tra chi si affida al proprio corpo (alla distruzione rituale di esso) come strumento di morte, e chi simmetricamente si affida ai blindati come garanzia di sicurezza, senza più nulla in mezzo. Soprattutto, senza più forza della Parola: di quel Verbo, di quel Logos, che per entrambe le identità in campo era, per definizione, ?all?origine?, e che ora, sul limite della fine, viene a mancare.

l’intervento integrale di Revelli su Vita magazine in edicola

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