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Anoressia e bulimia: boom fra gli adolescenti, ma i servizi sono intasati
Dopodomani, un’onda viola, simbolo della lotta contro i Disturbi del Comportamento Alimentare, manifesterà a Roma per chiedere al Governo un potenziamento dei servizi di cura: con la pandemia i casi sono aumentati almeno del 30 per cento. L'esordio della malattia già a 13 anni. «Si muore di anoressia e bulimia non perché sono malattie incurabili, ma perché non ci sono sufficienti centri specializzati», racconta un papà.Questa è la nostra inchiesta
I numeri sono da capogiro: negli ultimi dieci giorni sette adolescenti sono morti per malattie generate o connesse ai disturbi del comportamento alimentare (DCA). La pandemia sembra avere acuito l’esplosione di queste problematicità e il Sistema sanitario nazionale, già molto carente prima, non riesce a far fronte a tutte le nuove richieste. Tantissime le richieste dei giovanissimi: a seguito del lockdown l’età di esordio è scesa dai 15 ai 13 anni, di media. Oggi si stima siano circa 3 milioni le adolescenti e gli adolescenti che soffrono di DCA. Ma sono stime al ribasso, poiché esiste in questa patologia una grande quota di pazienti che non riesce ad arrivare alla cure.
I numeri: + 30% dall’inizio della pandemia
Da quanto emerge da una survey condotta dal ministero della Salute, dal gennaio 2019 al gennaio 2021, le nuove richieste di presa in carico sono aumentate in media del 30 per cento. I numeri variano di regione in regione poichè l’offerta di servizi e di professionisti è parecchio eterogena sul territorio nazionale. (Ad esempio, Milano ha cinque ambulatori pubblici dedicati -e quindi sta vivendo una maggiore pressione- Palermo neanche uno).
C’è comunque un dato inquivocabile: nel 2021 sono triplicate (rispetto all’anno precedente) le chiamate al Numero Verde nazionale della Presidenza del Consiglio, SOS Dca 800180969, che fornisce indicazioni per tutto il territorio nazionale e counseling psicologici. Il sistema sanitario pubblico non riesce a soddisfare tutte le domande d’aiuto.
«Non sono molte le malattie psichiatriche che vantano un primato di numeri così alto e con una mortalità che li pone al secondo posto, dopo gli incidenti stradali, per i giovani adolescenti, eppure le risposte della politica sono del tutto inadeguate», commenta Stefano Tavilla, presidente dell’associazione Mi Nutro di Vita e papà di Giulia, morta a 17 anni per bulimia.
«Di anoressia, bulimia e binge-eating (abbuffate incontrollate) si muore ogni giorno, da oltre trent’anni. E si muore non perché di per sé siano malattie incurabili, benché subdole, ma perché non ci si può curare subito e bene»
Stefano Tavilla, presidente di Mi Nutro di Vita
Nello 2019 il Rencam (Registro Nominativo Cause Morte) indica che sono decedute quasi tremila persone (giovani e adulti) per diagnosi collegate a Disturbi del comportamento alimentare, con un’età media di 35 anni. In pratica, 10 decessi ogni giorno. Una tragedia nota, eppure ignorata. Oggi, in particolare, aggiunge questo papà, «si muore perché il ritardo nell’assistenza è stato troppo grande, perché le liste di attesa sono troppo lunghe – cinque/sei mesi-, perché in alcune regione non ci sono centri specializzati, o sono insufficienti».
La manifestazione a Roma
Venerdì 8 ottobre, giornata mondiale del disturbo mentale, un’onda viola manifesterà a Roma, in piazza Castellani, davanti al Ministero della Salute per chiedere al Governo «che ogni struttura pubblica disponga di personale e servizi dedicati, capaci di dare delle risposte tempestive a chi si ammala di DCA, come accade a chi sviluppa un problema cardiologico».
Tra loro ci saranno le 70 associazioni fondate dai genitori dei bambini e dei ragazzi con DCA, i professionisti, i pazienti. Tavilla è uno dei promotori di questa iniziativa e ha lanciato anche una petizione su change.org affinché i disturbi del comportamento alimentare vengano inseriti all’interno dei LEA, Livelli Essenziali di Assistenza, con un budget autonomo da quello destinato alla cura delle patologie psichiatriche.
La loro sarà anche una manifestazione contro pregiudizi ed ignoranza. Un strumento per risvegliare quello sguardo addomesticato con cui si continua a guardare ai disturbi del comportamento alimentare alla ricerca di una spiegazione unica e totalizzante (il corpo feticcio, il rifiuto della femminilità, la mancanza di volontà, la “madre frigorifero”, i genitori troppo assenti oppure troppo presenti), e per questo fallace e miope.
L’anoressia, la bulimia, il bing- eating e la vigoressia (una forma caratterizzata dalla continua e ossessiva preoccupazione per la propria massa muscolare), infatti, sono sempre un sintomo tangibile di una malattia psichiatrica e mai una diagnosi. Per questo motivo, il percorso di cura dura molti anni e necessita il supporto di un’equipe multidisciplinare, che non guardi solo al corpo, ma anche esplori anche l’anima e la testa. Che vada a fondo in quella sofferenza e in quel disagio che ogni volta sono diversi, seppure incubati dentro corpi ugualmente maltrattati. Purtroppo oggi sono davvero poche le strutture pubbliche che hanno al proprio interno team così preparati. «Eppure – sottolinea Tavilla – per arginare questa tragedia l’unico modo è garantire cure adeguate su tutto il territorio nazionale».
Le strutture dedicate sono insufficienti
Il problema dell’insufficienza dei servizi non è nuovo. «Già prima della pandemia, la metà delle regioni italiane (tra cui Marche, Piemonte e Lazio) non aveva una rete completa di assistenza, che dovrebbe comprendere ambulatori dedicati, centri diurni, strutture residenziali, posti letto ospedalieri dedicati», spiega Laura Dalla Ragione, presidente della Siridap (Società italiana riabilitazione disturbi del comportamento alimentare e del peso). «In quattro regioni, Sicilia, Campania, Puglia, Sardegna, non c’è proprio nulla».
«Oggi l’attesa per una prima visita è di tre mesi se il paziente è minorenne e cinque, sei mesi se maggiorenne», spiega Favilla, secondo cui le percentuali citate sopra sono decisamente sottostimate. «All’ambulatorio Disturbi Comportamento Alimentare dell’ASL Roma 1, in piazza Santa Maria della Pietà, che è un servizio d’eccellenza aperto anche ai più piccolini, l’aumento delle richieste di presa in carico nella fascia 12-18 anni è stato pari al 231,7%».
Così, da quando è iniziata la pandemia, la risposta che i giovani e le giovani pazienti con Anoressia Nervosa, Bulimia Nervosa, Disturbo da Binge Eating ricevono più frequentemente è stata un «ci dispiace non c’è posto». In uno scenario così frammentato e debole, la difficoltà di accesso alle cure rallenta l’ingaggio terapeutico, aggrava i quadri clinici e favorisce la cronicizzazione dei disturbi, fino ad esiti terribili.
Lo racconta anche Fiorenza Sarzanini, vicedirettrice del Corriere della Sera, che nel podcast Specchio (prodotto da Chora Media) affronta il tema dei disturbi alimentari, a partire dalla sua esperienza. «Ho immaginato il dramma delle famiglie nei mesi in cui, per il Covid, era impossibile farsi rispondere da un medico, in cui tutto è stato inaccessibile, in un’Italia dove in molte regioni non esistono strutture specializzate, dove genitori e figli restano soli e disperati. Per esserci passata so quanto sia importante parlarne, combattere silenzi e pregiudizi».
Coinvolti anche bambini di 10 o 11 anni
Al Bambino Gesù di Roma, che prima del lockdown erogava circa 1.500 prestazioni annue, l’esplosione di richieste di aiuto è cominciata già nella tarda primavera del 2020. «Abbiamo registrato un più 30% rispetto al 2019», spiega Valeria Zanna, responsabile della struttura semplice di Anoressia e Disturbi Alimentari. Ma è soprattutto nel 2021 che i numeri hanno assunto contorni impressionanti. «Nel primo trimestre 2021 sono cresciute del 52% rispetto allo stesso periodo del 2020 mentre nel secondo trimestre hanno superato il 110%». Nel reparto di pediatria sono ricoverati anche pazienti di 10, 11, 12 anni. «Alcuni sono in condizioni così critiche da aver bisogno di essere alimentati ed idratati con un sondino». Per i casi meno critici ci sono le attività in day hospital, a frequenza variabile.
La pandemia ha fatto esplodere un malessere latente
Il Covid e la quarantena sono stati fattori di accelerazione del problema, ma «molte di queste ragazze e di questi ragazzi erano già allenati a mangiare di nascosto, a vomitare di nascosto, a vivere di nascosto», specifica Zanna. «Il lockdown prima e le restrizioni della socialità hanno funto da detonatore a un malessere che era spesso già presente ma magari tenuto a bada, o in un precario equilibrio». Tra i maschi abbondano i casi di vigoressia, mentre nelle ragazze le espressioni del disagio sono più sfaccettate: c’è chi ha smesso di mangiare, chi si distrugge con lassativi, chi ricorre alle dita su per la gola, chi si abbuffa fino allo sfinimento. Molte di loro non hanno più le mestruazioni, hanno pochi capelli, spesso legati con una bacchetta, la stessa che usano per fare uno chignon quando vomitano nei bagni pubblici. I loro denti sono gialli e corrosi dai succhi gastrici. La callosità e le lesioni delle mani testimoniano la perizia con cui si provocano vomito: ai più esperti basta un’efficace contrazione del diaframma, gli altri usano dita, spazzolini da denti, abbassalingua.
Carente il supporto per le famiglie
In un quadro già così lacunoso e complesso, una delle gravi mancanze riguarda i servizi di sostegno per le famiglie al cui interno c’è una persona divorata ossessivamente dai DCA. «Io ricevo quotidianamente decine di telefonate di mamme, papà, fratelli e sorelle: chiedono consigli su cosa fare, sui centri a cui rivolgersi, sulle terapie da seguire. Spesso hanno solo il desiderio di sfogarsi, di parlare, di esprimere quel marasma di emozioni contraddittorie che si portano dentro, tra sensi di colpa, rabbia, dispiacere, impotenza, e al quale pochi specialisti sembrano volere -o potere- dare retta», racconta Favilli.
Questa tremenda disperazione la racconta bene, e senza sconti, anche Agnese Buonomo, nel libro “La famiglia divorata – Vivere accanto al disturbo alimentare” (Mursia, 2021). Nelle dodici storie strazianti e drammatiche c’è anche quella di Chiara, che per sei mesi, dopo aver lasciato Napoli, ha attraversato e rimbalzato per mezza Italia, bussando a tutte le porte dei centri specialistici nella speranza di trovare qualcuno che potesse aiutare sua figlia; e quella del fratello di Lodo, morto un paio di anni fa per anoressia, appena dopo aver raggiunto la maggior età.
«Accanto a tanti manuali per i professionisti, alle biografie delle pazienti, e ai libri più noti, come quello di Michela Marzano (Volevo Essere una farfalla) e di Alessandra Arachi (Briciole: Storia di un’anoressia) sentivo l’urgenza di descrivere i DCA attraverso gli occhi dei padri e delle madri, ma anche delle sorelle e dei fratelli che combattono, soffrono, vivono la malattia dei loro cari «nel buio e nel silenzio delle mura domestiche, sovrastata dall’ignoranza generale e dalla poca attenzione sociale».
La sfida: curarli a casa loro
Famiglie, specialisti e pazienti concordano sul fatto che ciò che manca sono, soprattutto, gli ambulatori dedicati. «Eppure – torna a sottolineare Laura Dalla Ragione- la loro presenza potrebbe ridurre significativamente il rischio di ricoveri per acuzie, dato che il percorso ambulatoriale rappresenta il gold standard per la cura nel 70% dei casi. E infatti nelle regioni dove sono presenti reti di servizi diffuse e specializzate nel trattamento dei DCA, come Veneto, Umbria, Emilia Romagna e Lombardia, il tasso di ospedalizzazione è molto più basso».
D’accordo con lei anche Zanna del Bambino Gesù. «I ricoveri in ospedale, così come quelli nelle residenze, dovrebbero essere l’ultima opzione da considerare. La vera sfida, su cui dovrebbe concentraci, è riuscire a curare questi giovani e questi adulti nelle loro vite e nelle loro case. Per fare questo è imprescindibile disporre di un numero maggiore di ambulatori dedicati e gestiti da equipe multidisciplinari altamente competenti».
Nell’ottobre del 2020 il Ministero della Salute ha aggiornato il documento sul “percorso Lilla” in pronto soccorso con l’obiettivo di fornire agli operatori sanitari uno strumento per il triage, la valutazione e la presa in cura dei pazienti che si presentano in PS in condizioni di urgenza. «Questo percorso, che era stato fortemente voluto dalle Associazione di pazienti e familiari per ora, però, è monco, perché non dialoga con i servizi di cura del territorio, dove ci sono», evidenzia Dalla Ragione.
Il problema del Sud
Rosa Trabace è da quindici anni la responsabile del Centro di Riferimento Regionale per la Cura dei Disturbi alimentari e del peso “G.Gioia” di Chiaromonte Potenza, l’unico del sud Italia. «Dal 2005 sono stati accolti 900 pazienti nei venti posti letto in regime residenziale e più di 2.000 nell’ambulatorio che offre un servizio multidisciplinare integrato. Prima della pandemia il 70% dei nostri pazienti era maggiorenne e il 30% minorenne. Oggi vi è un’inversione di tendenza. L’età media è scesa a 13 anni». Il problema, sottolinea l’esperta, non è la disponibilità dei posti ma l’assenza nelle regioni limitrofe, come in quelle della Calabria, Campania, Puglia, Sicilia, di servizi dedicati e residenze riabilitative. Il più delle volte, il ritorno a casa, senza poter essere seguite nella giusta maniera, vanifica il lavoro fatto e talvolta riporta i pazienti alla casella di partenza, come nel gioco dell’oca».
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