Non profit

Angélique Kidjo note fuori dal recinto

Faccia a faccia con l'artista beniniana

di Joshua Massarenti

Nessuno come lei è stato in grado di portare la musica nera fuori dal Continente: «Chi ha detto che dobbiamo cantare e suonare solo su ritmi tradizionali? La musica innanzitutto. In tutte le sue forme: dal funk al soul, passando per il jazz, il reggae, il rythm’n’blues, la zouk e i ritmi vudù. Al resto ci pensano una voce inconfondibile, un temperamento vulcanico, un impegno politico costante e un amore sconfinato per la vita. Sono i quattro marchi di fabbrica di Angélique Kidjo, artista africana di immenso talento, tra le poche ad essere riuscite nell’impresa di frantumare le frontiere della musica tradizionale targata Africa e conquistare il mondo abbracciando le correnti musicali più svariate. Come lei c’è stata solo Miriam Makeba, leggendaria cantante sudafricana deceduta nel novembre 2008 a Castel Volturno, poco dopo un concerto contro la camorra dedicato a Roberto Saviano.
Con la scomparsa improvvisa di Makeba – assicurano i critici – Angélique Kidjo è l’unica cantante africana capace di colmare il vuoto lasciato dalla stella del Sudafrica. Un’eredità che la Kidjo non vuole assumere, preferendo dedicare «a quest’artista insostituibile» tre concerti memorabili presentati a Parigi nel 2009. E un album, l’ultimo, intitolato Oyo e dedicato al padre Franck, «al quale devo la mia passione per la musica». «È un ritorno alle origini» sostiene la cantante originaria del Benin in questa intervista con Vita. «Il Benin è una terra fortemente impregnata dalla cultura vudù che ho integrato con le sonorità degli artisti che mi hanno fatto sognare durante l’infanzia». Tra loro ci sono Curtis Mayfield, Aretha Franklin, Carlos Santana, Sidney Bechet, la cantante togolese Bella Bellow.
Assieme al padre – funzionario postale con un debole per il banjo -, mamma Yvonne, coreografa e direttrice di un gruppo teatrale rinomato in Africa occidentale, è l’altra grande figura familiare di riferimento di Angélique Kidjo. Ci sono poi i fratelli, con cui forma all’età di 9 anni i Kidjo Brothers Band. Soul e Rythm’n’blues vanno già a braccetto con la musica tradizionale beninense. Seguiranno altre influenze come il jazz, che nel 1989 le consentono di imporsi per la prima volta sulla scena musicale internazionale con l’album Parakou e coronare il sogno di una vita: cantare assieme a Miriam Makeba.
Ma la vera svolta avviene nel 1991 con Logozo, album prodotto da Chris Blackwell, il fondatore di Islands Records, la casa discografica che ha lanciato star del calibro di Bob Marley e degli U2. «Quando ci siamo incontrati», ricorda Kidjo, «gli ho detto chiaro e tondo che non volevo sacrificare la mia musica sull’altare del successo. Lui mi ha risposto: “Tu pensa a creare la tua musica, noi ci occupiamo a venderla”. Chris è stato di parola e sono sempre riuscita a comporre le mie canzoni in tutta libertà».
Premi e successi planetari come quello registrato nel 1994 con Agolo convincono Kidjo di aver scelto la strada giusta: «Gli occidentali hanno voluto incastrare i musicisti africani classificandoli nella World Music. Come se gli artisti dell’Africa non fossero capaci di aprirsi al mondo e assorbire correnti musicali extra africane. Chi ha detto che dovevamo cantare e suonare unicamente su ritmi tradizionali? Il mio percorso artistico dimostra che l’Africa sa essere al passo con i tempi». Assieme alla musica, la politica è l’altra grande passione di Angélique Kidjo. Ambasciatrice di buona volontà dell’Unicef dal 2002, Kidjo non perde mai un’occasione per difendere i diritti dei più deboli scagliando la sua rabbia «contro i Paesi ricchi e i leader africani corrotti. Le opportunità migliori rimangono i concerti perché sei direttamente a contatto con la gente. È lì che capisci se il tuo messaggio viene davvero recepito o meno».
Vita: Il suo tour la sta portando in giro per l’Europa, gli Stati Uniti e in Asia. Che messaggi vuole far passare in questo periodo?
Angélique Kidjo: Nonostante gli enormi progressi registrati dall’Africa nell’ultimo decennio, la strada per sradicare la povertà è ancora molto lunga. Purtroppo gli aiuti allo sviluppo ci hanno rovinato.
Vita: Rovinato è una parola grossa?
Kidjo: Negli ultimi trent’anni ho avuto modo di viaggiare parecchio in Africa, andando laddove i nostri leader politici non mettono nemmeno i piedi. Parlo di villaggi abbandonati a se stessi, dove il culto degli aiuti ha dato nascita a una generazione di assistiti che non hanno la forza o la volontà di prendere in mano il loro destino. La corruzione della leadership africana è l’altra grande piaga prodotta dagli aiuti, diventati negli anni 90 una delle poche fonti di reddito a disposizione dopo il ritiro degli investimenti esteri causati dalle guerre e dalle pandemie come l’Aids. Oggi il nostro continente si sta riprendendo, ma a beneficiare dei margini di profitto non è il popolo, ma delle élite corrotte. Penso che la presenza della Cina non sia estranea a questo fenomeno. Ai cinesi la democrazia non importa nulla, sono in Africa per le nostre materie prime, non certo per far crescere gli africani. Quest’anno l’Africa ha celebrato cinquant’anni di indipendenza. Ma quale indipendenza…
Vita: Il 2010 sarà anche ricordato per i Mondiali sudafricani. Possiamo parlare di svolta?
Kidjo: In termini d’immagine sicuramente sì. Ora il mondo sa che l’Africa è in grado di ospitare e gestire un evento sportivo colossale. È un’esperienza molto importante per la gioventù africana. Personalmente ho un ricordo straordinario del concerto d’inaugurazione al quale ho partecipato insieme al vescovo Desmond Tutu. Detto questo, gli africani non hanno mai pensato che i Mondiali avrebbero cambiato la loro vita. È un’idea stupida che alcuni media hanno fatto circolare. Come se i Mondiali di Francia 98 fossero stati in grado di risolvere tutti i problemi sociali delle periferie francesi?
Vita: Tra concerti, album da produrre, impegni umanitari e politici, per non parlare della fondazione che dirige a favore dei bambini. Dove trova tutta questa energia?
Kidjo: Mia nonna mi diceva che avrei avuto tempo di riposare una volta seppellita. Oggi mi accorgo che non prendo un giorno di vacanza da tredici anni! La mia passione per la musica e il sociale mi trascinano verso proposte ed esperienze a cui non ho voglia di sottrarmi. Prendiamo la mia fondazione. In pochi anni siamo riusciti a prendere in carico 500 ragazzine in cinque Paesi africani con l’obiettivo di garantire loro un’educazione degna di questo nome. Mio padre non voleva figli artisti e analfabeti nella sua famiglia. Come tutte le cose che ho intrapreso con serietà nella mia vita, la Fondazione Batonga è un impegno che mi richiede tempo.
Vita: Sono passati due anni dalla morte di Miriam Makeba. Che ricordi ha?
Kidjo: Una voce immensa. Mi ha lasciato in eredità la voglia e la libertà di fare la musica che volevo. Miriam è stata un esempio per molte cantanti africane. Senza di lei, non starei qui a rilasciarle questa intervista. Il mio successo è anche il suo.

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