Famiglia

Angeli dei profughi senza Arcobaleno

Sono quasi 5 mila,arrivati non con gli aerei della nostra missione,ma scaricati sulle coste dagli scafisti albanesi.

di Paolo Calocci

«Alle quattro, col pulmino. E poi vai all?ospedale». Don Cesare Lodeserto, direttore della Casa ?Regina Pacis? di San Foca alterna frasi come questa, di praticissima quotidianità, a commenti quali: «Aiutiamo questa gente con i fatti dei poveri e le chiacchiere dei ricchi», «più
si parla male di loro, più le persone di buona volontà li sostengono» e «cerchiamo di evitare che questo luogo diventi un grande zoo».
Un luogo ormai famoso, San Foca, a 20 chilometri da Lecce e a 20 metri dall?Adriatico, un caposaldo della solidarietà dei confini orientali italiani, fra Gallipoli, Castro e Otranto, una ciambella di salvataggio per chi viene ?sbattuto? dagli scafisti sulla costa del Salento o buttato giù poco prima, nelle fredde acque della notte. Iracheni, curdi, afghani, pachistani, serbi, turchi. Ma oggi arrivano soprattutto dal Kosovo, ricoperti del catrame del mare e dell?olio dei gommoni. Per loro non ci sono stati gli aerei della missione Arcobaleno. No, per l?Italia sono tutti clandestini, anche se molti di loro vogliono avanzare la domanda di asilo politico.
«La giornata è iniziata con l?arrivo di 139 nuove persone. Oggi posso pronosticare che si chiuderà con circa 500 nuovi arrivi». A parlare è proprio don Cesare, che di ?ospiti? ne ha accolti anche oltre seicento.
Stanotte gli ultimi sono giunti a mezzanotte meno dieci: «Noi cerchiamo», continua il sacerdote, «di rendere al meglio questo servizio che presuppone grande attenzione, disponibilità, carità ma, soprattutto, grande sacrificio. Il sacrificio, qua, sta scritto sui muri», afferma indicando la sua Casa di accoglienza. Dal Kosovo giungono soprattutto famiglie. In media sostano al Centro ?Regina Pacis? di San Foca dai sette ai dieci giorni, il tempo necessario per fare le pratiche d?asilo politico o per essere espulsi. Ma la vera salvezza – è chiaro – coincide con l?agognato permesso di soggiorno. Semmai, tocca poi ai volontari di don Cesare accompagnarli fino a Roma, per farli incontrare con amici e parenti.
«A volte questi nostri assistiti», è ancora don Cesare a parlare, «si trasferiscono pure nelle città dell?Italia centro-settentrionale, ma più spesso puntano a disperdersi in Europa».
E i suoi volontari, don Cesare, chi sono? «Sono uomini e donne di buona volontà», risponde il religioso, «che vivono questa esperienza di servizio al prossimo conducendo una vita dura in questa struttura. Molti di loro vengono da lontano». Alla ?Casa Regina Pacis? infatti non operano solo pugliesi (una trentina al giorno): ci sono calabresi, lombardi, sardi, molisani ma alcuni provengono anche da Stati esteri, immigrati in Italia primi a comprendere i bisogni di chi fugge da povertà e violenze. Si fermano da don Cesare per un giorno, una settimana, due, a volte più. «Non chiedo mai loro», spiega don Cesare, «perché arrivano qui e si danno da fare. Le loro motivazioni sono interiori e forti. Offro loro solo da lavorare, il vitto quotidiano, un alloggio e l?opportunità di rendere il loro tempo diverso. È così che questo centro di accoglienza diventa una scuola di vita».

Daniele, il dottore dell?infermeria
All?infermeria opera il dottor Daniele Daini: «Qualche giorno fa, assieme ad altri miei colleghi, ho avuto l?incarico di guardia medica dalla Asl di Martano, altro paesino del Leccese. È stata la cosa più bella che potesse accadermi, ho la pelle d?oca solo a raccontarlo. Del resto», prosegue il giovane dottore che lavorerà al ?Regina Pacis? fino al giugno prossimo, «proprio qualche tempo fa chiedevo alla mia ragazza cosa si facesse nel Centro di don Cesare. Lei mi aveva risposto: ?Si dà da mangiare ai profughi, ai poveri?. Così avevamo programmato di andarci, la domenica. Poi la comunicazione ufficiale della Asl». «Sono credente», conclude Daini mentre visita una donna albanese aiutato dal suo assistente volontario marocchino Isa, «e in questi casi non parlo di fortuna se ora posso godere di quanto questa professione di medico mi sta regalando umanamente. Vedere i bambini che gonfiano palloncini con i miei guanti chirurgici è stupendo, oltre che divertentissimo. Tutto ciò è impagabile».

La volontaria ucraina e il kosovaro Alì
Di medicinali ce ne sono a sufficienza. Per la lingua i dottori si fanno aiutare da quegli ospiti che già conoscono un po? d?italiano. Le patologie più frequentemente riscontrate sono le malattie da raffreddamento che a volte si trasformano in faringiti e bronchiti.
Malattie ?da sbarco?, così dovrebbero essere classificate. Molti profughi soffrono di mal di denti. Al ?Regina Pacis? ci sono anche donne che hanno partorito, dopo lunghi viaggi d?inferno: in tutto ventiquattro nati, molti nuovi di zecca ?Cesare? e ?Regina?.
Una volontaria ucraina,?Renata?, esce di fretta dal magazzino sanitario. Taglia corto: «Diamo una mano dove serve». Nel suo Paese era una maestra elementare ma poi ha fatto tanti altri lavori, fino a giungere in Italia come tutte le altre. Alcuni kosovari che non sanno più dove sono i loro cari, si sono messi a disposizione di don Cesare. Ovunque. In cucina, nel magazzino dei vestiti nuovi e usati, per le pulizie del centro. «Mi chiamano dicendo», racconta uno di loro sorridendo, «Alì vieni-qua, c?è-troppo-casino, fai-lavoro».
Dal centro di San Foca non si esce. O meglio: si esce solo con il permesso di soggiorno. Fino a quel momento chi è non entrato regolarmente in Italia deve attendere i tempi dello Stato ospitante. Ma qualche giorno in più d?attesa e due carabinieri all?ingresso del Centro, che scherzano anche con gli assistiti, valgono la candela. «Del resto vengono da un altro recinto, che per molti di loro è quello albanese», afferma don Cesare. «È un recinto vigilato dalle armi, fatto di violenza e sfruttamento. Al contrario, il nostro è un recinto simbolico, che inizialmente li protegge dalle incomprensioni, che li aiuta a crescere e a costruire per la loro famiglia un futuro di legalità».

Ein moment, signora. You Kosovo?
Antonio ?Tonio? Marzotta, anziano ex-operaio Fiat, è responsabile del servizio vestiario: «Sono due anni che vesto questa gente. Da me sono passate 12 mila persone. Abbiamo lavato e rivestito 8 mila ragazzi. Mi sono buttato a capofitto per aiutare questi bambini e queste donne. E lo farò finché avrò salute». Snocciola il guardaroba a sua disposizione: intimo uomo-donna-bambino, pantaloni, gonne, costumi… «Ein moment-signora-please!», dice mischiando le lingue rivolto a una donna kosovara che reclama vestiti. «Piano, piano… allora, per i bambini,vieni qua, i calzini… Metti i calzini alla bambina, urgente! Amore mio, vieni qua…anche le scarpine… tutta roba nuova, sennò non te la darei… Numero?». Nel suo cuore è rimasta una bambina curda dodicenne. Si chiama Denise, ora vive a Lecco con i genitori. «Mi ha telefonato l?ultimo Capodanno», ricorda emozionandosi, «aprendomi il cuore e facendo scoppiare in lacrime mia moglie». Poi riparte, c?è il primo della fila: «You, Kosovo?».

Sono qui perché si parla troppo di guerra
Gabriella è molisana, di Isernia. Di pomeriggio insegna l?italiano ai più piccoli, ma aiuta anche in cucina e al magazzino. Ha lavorato al ?Regina Pacis? per tre settimane prima di Pasqua. Alle spalle ha oltre due mesi in Svizzera in un centro per rifugiati e varie raccolte di aiuti per i kosovari. «Anche da noi volevamo aprire un centro di accoglienza come questo. Ma il resto del quartiere non ha voluto». Nutre una visione ?egoistica? del volontariato, sostiene che si fa «per se stessi, per capire meglio le situazioni, il mondo circostante». Poi giù, di nuovo a lavorar duro.
Al suo fianco c?è Angela di Cosenza, studentessa universitaria munita di dizionario italiano-albanese: «Sono qui perché si è sentito parlar troppo di guerra». Con le sue amiche ha preso l?elenco telefonico e ha chiamato la Caritas di Lecce. «Mi ha spinto mia sorella. Non pensavo che si potesse fare tanto per questa gente, stipando pasta e altri generi di prima necessità. Quando fra qualche giorno tornerò ai miei libri mi sarò allontanata da queste persone solo fisicamente, non con lo spirito».
Il cuoco del centro è Nazareno, disoccupato cagliaritano: «La mia passione è ora utile agli altri. Inizio alle 5 e 30 e finisco alle 18». Cucina anche in tre o quattro tornate al giorno. «Prima sempre per gli ospiti, poi per i volontari. Ora devo andare, che oggi mi toccano 350 coperti….», scherza allontanandosi. Ma la mensa del centro ?Regina Pacis? può sfornare fino a mille pasti al giorno, nel rispetto delle differenti culture e religioni degli ospiti. Qualcuno fa trillare un campanello, tutti in fila per mangiare. Il centro si anima maggiormente, si alzano le voci. Spaghetti con melanzane e peperoni. Arance a volontà e minestre calde. Per i neonati sono già pronti gli omogeneizzati.

Il ragazzino amico degli scafisti
?Florio? da Valona, cappellino da baseball e 15 anni, ha preso un gommone invece di andare a scuola: «Ero d?accordo con mia madre, i miei amici scafisti mi hanno dato anche 200 mila lire. Non sono mica della campagna: ho molte conoscenze a Valona. Poi mi ha preso la polizia italiana. Mi hanno vestito e accompagnato alla Casa Regina Pacis. Mio padre verrà a riprendermi domenica prossima, ma questi ragazzi italiani che ci aiutano sono davvero molto gentili». Il suo sogno è uno scooter nuovo e una fidanzata italiana.
Giorgio viene da Cursi, in provincia di Lecce. Fa il volontario da due anni. Supera i suoi problemi di salute, dice di occuparsi di tutto: «Sono orgoglioso di quello che faccio. L?altro ieri ne hanno scaricati in acqua circa quaranta. Io ho portato un bambino in preda a una crisi di freddo in ospedale». Al suo fianco, ad aiutare soprattutto in cucina, c?è spesso ?Benzina?, una giovanissima ragazzina irachena il cui nome suona agli italiani alla stregua del carburante.
Quest?oggi, in visita al ?Regina Pacis? c?è monsignor Cosmo Francesco Ruppi, vescovo di Lecce e presidente della Caritas diocesana: «È magnifico sentire questo cuore italiano che pulsa sempre forte dinanzi a tali tragedie», dice il vescovo di Lecce. «Il fatto che molti volontari sono dei giovani conferma che il volontariato è la vera forza sociale dell?Italia, fortemente motivata da ideali spirituali e morali. La loro spinta interiore è vedere il fratello povero sofferente come l?immagine di Cristo, di fronte al quale bisogna inchinarsi». Un vescovo in linea con il suo prete, perché anche per don Cesare «il volontariato è da sempre il frutto del popolo più generoso dell?Italia desideroso di aiutare l?altro popolo, il popolo in cammino degli immigrati».

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