Volontariato

Andrea Delogu: «Da dislessica non distinguevo “mamma” da “mucca” ma oggi volo a Sanremo»

«Trent’anni fa la mia dislessia non esisteva. Cioè io ero dislessica ma non si sapeva», racconta Andrea Delogu, che tra qualche giorno condurrà Prima Festival, a Sanremo. «La scuola non mi ha aiutata molto. Ho imparato tutto dalla Tv. E oggi, per condurre, ho i miei escamotage: non chiedetemi di leggere il gobbo»

di Sabina Pignataro

Conduttrice e volto di Rai Radio2 e della tv, scrittrice, autrice e attrice, Andrea Delogu non riesce a stare ferma proprio mai: in questi giorni si prepara a vivere l’esperienza sanremese come conduttrice del Prima Festival, in onda dal 7 all’11 febbraio.

Un sogno? Sì, forse. Ma anche il punto di arrivo di un percorso in salita. «Io sono dislessica: significa che quando leggo le lettere si mischiano nel mio cervello e rendono faticoso il riconoscimento delle parole. Da bambina non conoscevo la differenza tra la parola “mamma” e la parola “mucca”: sono due parole di cinque lettere ed entrambe cominciano per emme, ma nella mia testa non ne volevano sapere di mettersi tutte nel verso giusto».

Andrea Delogu è nata nel 1981 e negli anni Novanta la dislessia “non esisteva”. «Cioè, ovviamente esisteva, io ero e sono dislessica e lo so bene, ma pochi ne avevano sentito parlare e quindi se eri il più lento della classe, ti sedevi sempre scomposto, scrivevi male, stavi attento solo per pochi minuti, semplicemente eri scarso. Ma non esisteva un’etichetta diversa per distinguere coloro che avevano un disturbo specifico dell’apprendimento da quelli che invece non avevano voglia di studiare punto e basta».

Delogu ha dovuto fare i conti con questo disagio a lungo, ma ha trovato soluzioni alternative. «Ad esempio ha imparato a leggere recitando (in questo modo riuscivo a guadagnare un po’ di tempo extra e in più a dare un senso alle parole), ho scoperto Internet e la videoscrittura, con il correttore ortografico, i social, il t9 e tutto quello che la tecnologia ha saputo offrire alle mie strategie di sopravvivenza». Lei lo racconta molto bene e in modo ironico nel libro “Dove Finiscono le parole” (Rai libri, 2019).

Come spesso accade alle persone dislessiche, la televisione è stata una sua fedele amica e “strumento compensativo”. «Per me le ore trascorse davanti allo schermo sono state quasi più importanti di quelle in classe. Ho imparato a parlare un italiano corretto dalla televisione, la grammatica sui social, la storia dai documentari e ho conosciuto i grandi classici vedendo i film che ne sono stati tratti. A pensarci bene, se mi sono innamorata della Tv forse è stato proprio per questo: in Tv c’era tutto, immagini e parole, colori e musica, balli e dialoghi, tutto senza pause, senza attese, senza tempi morti. Non dovevi star lì a decifrare lettere e numeri, c’era qualcuno che leggeva per te e poi ti raccontava una storia: bastava aprire occhi e orecchie e stare a guardare quel magico mondo che prendeva vita».

Per me le ore trascorse davanti allo schermo sono state quasi più importanti di quelle in classe. Non dovevi star lì a decifrare lettere e numeri, c’era qualcuno che leggeva per te e poi ti raccontava una storia: bastava aprire occhi e orecchie e stare a guardare quel magico mondo che prendeva vita

Andrea Delogu

E oggi in Tv come fa?« Ho trovato i miei escamotage», confessa. «Studio (con calma e con i miei tempi) la scaletta, che è il copione del programma, e poi quando vado in onda so di dover andare dal punto A al punto B e così faccio, improvvisando, seguendo e vivendo quello che accade in studio e ricordando gli “obiettivi” di scaletta che devo raggiungere. Non chiedetemi di leggere il gobbo».

Questo dice, «vi potrà sembrare un azzardo, ma vi assicuro che è stata la mia fortuna, perché mi ha permesso di dimostrarmi più umana, più autentica agli occhi del pubblico e credo che gli spettatori lo abbiano apprezzato perché quella che vedono sullo schermo è una donna che non ha difficoltà ad ammettere i propri errori e i propri limiti».

Quando era più piccola però non fu cosi facile: «I miei genitori ci hanno provato in tutti i modi: dall’approccio dolcissimo, alla sgridata, alle lezioni di recupero, a un certo punto i miei hanno persino cercato di responsabilizzarmi decurtandomi dalla paghetta una quota per pagarle, alle punizioni come una settimana senza cartoni animati prima di dormire o il divieto di andare a giocare fuori per dieci giorni. C’è da dire che ce l’hanno messa davvero tutta per aiutarmi, non si sono arresi nemmeno di fronte ai continui fallimenti e, a distanza di anni, mi chiedo come abbiano fatto a non demoralizzarsi. Ah, se avessi avuto una diagnosi di dislessia… ».

Da allora sono trascorsi trent’anni. Andrea Delogu è ambasciatrice di AID, Associazione Italiana Dislessia che punta a far crescere la consapevolezza e la sensibilità verso i Disturbi Specifici dell’Apprendimento (dislessia, disgrafia, discalculia, disortografia), che in Italia si stima riguardino quasi 3 milioni di persone.

«A me è molto chiaro che noi dislessici non siamo “meno” rispetto a nessuno. Questo non vuol dire però che siamo tutti dei geni. Tuttora, quando dico di essere dislessica, c’è sempre qualcuno che se ne esce con paragoni del tipo: “Lo sai, anche Einstein soffriva di dislessia! E pure Leonardo da Vinci!”. In queste occasioni alzo gli occhi al cielo e mi chiedo per quale motivo nessuno tiri mai fuori un cugino, un amico, un conoscente… Sempre e solo gente che come minimo ha scoperto la teoria della relatività o dipinto la Gioconda. Ecco, sappiate che le affermazioni di questo genere non sono d’aiuto, perché spesso, piuttosto che rincuorare, generano ansia. Non tutti siamo destinati a cambiare la storia della scienza, o dell’arte, o del cinema, dislessici o meno. Io, per esempio, da piccola desideravo soltanto fare un lavoro che mi permettesse di parlare tantissimo. Non so di preciso che cosa pensassi di dover dire, ma oggi sono orgogliosa di aver raggiunto il mio obiettivo. Sono convinta che la dislessia, in un certo senso, per me si è trasformata in un’opportunità».

Oggi Andrea Delogu rilegge in un podcast il suo libro “Dove finiscono le parole – Storia semiseria di una dislessica”, per raccontare il suo rapporto con i disturbi specifici dell’apprendimento in un Paese dove queste caratteristiche sono ancora sconosciute a molti. Come ci si sente quando le parole sembrano soltanto segni indecifrabili e oscuri? E cosa si prova a restare sempre indietro rispetto agli altri? «La storia di Andrea dimostra che nulla è precluso alle persone con DSA: per questo la sua testimonianza, rilanciata dal podcast, è una preziosa fonte di ispirazione», ha dichiarato Andrea Novelli, presidente AID.
Il podcast è disponibile al link https://www.raiplaysound.it/programmi/dovefinisconoleparole

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