Il Papa della pace
Andare a Gaza, l’ultimo sogno di papa Francesco
Lo aveva rivelato in un messaggio inviato all’amico e giornalista Lucio Brunelli poco prima che la sua salute precipitasse. Il segno di un’attenzione e di una preferenza che dà la cifra dell’intero pontificato

«Ne parlerò con la Segreteria di Stato per “sondegiare” la cosa». Era lo scorso 20 gennaio. Il Papa era già sofferente per la bronchite che lo avrebbe costretto al ricovero al Gemelli, ma in un messaggio inviato a Lucio Brunelli, giornalista e suo grande amico, aveva confidato l’idea che stava covando: compiere un viaggio a Gaza, una visita pastorale alla piccola comunità cattolica, con cui era stato sempre in contatto telefonico sin dall’inizio dei bombardamenti israeliani. Lo ha rivelato lo stesso Brunelli (autore dell’articolo che apriva il numero di VITA dedicato al decennale di pontificato di Francesco, scaricabile gratis in questi giorni dal sito) nel ricordo pubblicato ieri su L’Osservatore romano. «Sarebbe una buona cosa», sottolineava il Papa in quel messaggio. Scrive Brunelli: «Commuove il pensiero del Papa quasi novantenne, malato, che desiderava essere fisicamente vicino alla popolazione della Striscia di Gaza, come lo era stato con i familiari delle vittime israeliane delle stragi del 7 ottobre e dei rapiti da Hamas».
Come ha detto il cardinal Pierbattista Pizzaballa, quella priorità di attenzione e di affetto nei confronti di Gaza e in particolare della piccola comunità cristiana della Striscia è uno di quei dettagli che restituiscono una dimensione piena del pontificato di Francesco.
Una volta ricoverato, il sogno del viaggio era diventato ovviamente impossibile. Ma Francesco era riuscito comunque spiazzare tutti quando, dopo la grave crisi che lo aveva colpito nel weekend del 22 e 23 febbraio, uscendo dallo stato di incoscienza, come prima cosa aveva chiesto di parlare al telefono con il parroco di Gaza, padre Gabriel Romanelli. A partire dal 9 ottobre 2023, inizio dei bombardamenti su Gaza, l’appuntamento con il sacerdote argentino che guida quella piccola comunità di circa 180 famiglie tra cattoliche e ortodosse, è stato quasi quotidiano. La chiamata in genere avveniva intorno alle 19 italiane, le 20 a Gaza. In realtà non si trattava di una telefonata ma di una videochiamata dal cellulare del suo segretario, perché a Francesco piaceva familiarizzare, vedere, farsi sentire presente. Si faceva passare i bambini, chiedeva come stavano e anche cosa avessero mangiato. Lasciava che lo mettessero in vivavoce in modo che tutti potessero sentire. Il 12 gennaio scorso, dopo l’annuncio del cessate il fuoco, la telefonata si era trasformata in una festa collettiva di piazza, come è stato raccontato da L’Osservatore romano.
Nelle telefonate non c’erano mai contenuti eclatanti. Eppure colpisce la premura del Papa nel voler rendere pubblica questa sua consuetudine. Anche quel lunedì 24 febbraio aveva chiesto di aggiungere al consueto bollettino medico la notizia di quella telefonata. Per lui rappresentavano un gesto di attenzione e di vicinanza umana: come la telefonata serale di un vecchio padre al figlio e ai nipoti, dove anche il vecchio padre lontano si sente in famiglia.
C’è però, una domanda: perché papa Francesco sentiva necessario e giusto rendere pubblica questa sua consuetudine? È evidente che telefonando a Gaza in realtà sta parlando al mondo. Metteva al centro della sua attenzione di Papa, cioè di capo della chiesa, una realtà marginale e inerme. Una realtà da nulla, che è però posizionata su una faglia dove i destini di interi popoli sono messi in gioco da interessi potenti. La telefonata del Papa in questo senso suonava come un giudizio. E aveva il senso di un ostinato segno di umanità e di speranza.
Foto Vatican Media/LaPresse
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