Una volta Roberto, guardandomi dritto negli occhi, mi ha detto «Tu non hai idea di quello che è successo nella mio cervello quando ho spaccato la testa a Maria. Ero ai giardinetti, faceva freddo. Lei mi continuava a chiedere delle cose e io non capivo. A un certo punto non ho sentito più niente. Dopo poche ore ero a casa con i miei e sono arrivati i carabinieri. L’avevo uccisa e me ne ero andato. Ma io non sono un mostro.»
Difficile da credere? Proviamo.
Roberto era con noi nel laboratorio di sartoria del carcere. La sua condanna: “fine pena mai”. Un giorno l’hanno trasferito e noi non l’abbiamo più visto. Era simpatico. Sveglio. Intelligente. Aveva studiato. Era di Mantova. Per me era un ragazzo “normale”. «Veniamo allevati a latte e maschilismo» Dice Mario De Maglie, psicologo, coordinatore del centro di ascolto “Uomini maltrattanti di Firenze” nella trasmissione “Tutta la città ne parla” di #Radio3Rai. «E smettiamola di parlare di mostri, perché così c'è il rischio di non capire la normalità della violenza, del male dentro di noi.»
Sul sito della Casa delle Donne si legge: “La violenza è un fenomeno strettamente legato alla cancellazione del genere femminile… Essa non è frutto di una patologia o di un’anormalità, ma legata, al contrario, alla quotidianità e alla normalità dei rapporti fra uomini e donne nella nostra società. I dati confermano che vengono stuprate e picchiate donne di tutte le età, condizione economica, sociale e culturale. E gli uomini violenti appartengono a tutte le classi sociali.”
«A ripensarci non ci credo. – Mi spiegava Roberto dal carcere – Stavo lì mentre, insanguinata, Maria mi guardava negli occhi e io la picchiavo a morte. Non potevo fermarmi. Ripensandoci, tutte le volte che urlavo o insultavo qualcuno in ufficio credevo di essere nel giusto. Avevo sempre ragione. Solo ora qui in carcere capisco che ho sbagliato. Ma forse è troppo tardi. Avessi avuto tempo o qualcuno con cui riflettere non sarei arrivato a tanto.» La mamma di Roberto si è sempre fatta in quattro per aiutare suo figlio. «Non è certo colpa sua, ma mia madre ha fatto davvero troppo. Io credevo che tutte le donne dovessero essere perfette e disponibili in ogni momento e mi incazzavo se le altre non erano così».
«Nella nostra società la madre non sa più come comportarsi con i propri figli perché si sente in colpa e tende a dare troppo». Afferma Federica Dellacasa, presidente della nostra cooperativa sociale. «I figli non devono pensare di avere della madri perfette. Le persone sono imperfette e non per questo non possono essere amate. E poi, diciamocelo, il primo schiaffo non può essere tollerato e mai sottovalutato. Dietro questa violenza c’è spesso una fragilità che non si riesce a riconoscere. Nella stragrande maggioranza dei casi, c’è un’incapacità di stare nella relazione, di gestire conflitti, solitudini, paure d’abbandono».
Cambiare si può? «Qui in carcere ho capito che per cambiare bisogna essere consapevoli di essere violenti». Mi diceva Roberto. Occorre individuare i comportamenti insoliti e violenti, e per questo servono formazione e capacità. Ma noi siamo pronti ad ascoltare questi uomini?
Ersilia Bronzini nel 1901 scriveva in una lettera al marito Luigi Majno, presidente dell’Umanitaria, parole molto chiare sulle iniziative di stampo lenitivo riguardanti le donne: «A dir la verità, mi sono convinta che il movimento è e resterà ideale. Si riuscirà a qualche salvataggio singolo, non mai a fare qualche cosa di concreto in modo radicale e vasto perché nessuno può togliere ora subito l’origine del male… che è l’ignoranza e la miseria. Sono pappine su una piaga tutti i rimedi escogitati dalla gente pietosa. Bisognerebbe forse nemmeno tentarli e poter raggruppare tutti i mezzi e le volontà per cambiare radicalmente le forme economiche, i metodi d’istruzione e i concetti di morale e i diritti sui quali la società si basa».
Gabriele, mentre sta rientrando in carcere dopo una giornata fuori al lavoro, afferma: «Credo nel cambiamento. Ma non tutti abbiamo il piacere di governare noi stessi».
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