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“Anche lo scontro è vita”. Il bar al tempo del juke-box

Luogo di socialità e di interazione, il bar è una soglia dove pubblico e privato si intrecciano. Ma il bar è anche un ecosistema delicato, dove la socievolezza può rapidamente mutarsi conflitto. Nulla di grave perché - come scrive Goliarda Sapienza nel suo "Elogio del bar" appena pubblicato da Elliot edizioni - "anche lo scontro è vita". Il vero nemico del bar è invece la solitudine, che ne contraddice la natura di luogo dominato dal caso e dall'incontro

di Marco Dotti

«Ho scoperto il juke-box nel mio paese natale, in Carinzia, alla fine degli anni '50. Allora, specialmente nei quartieri di nuova costruzione, un po’ anonimi, alla deriva, in ogni bar se ne trovava uno. Attorno al juke-box c’era molto spazio». 

Così scrive Peter Handke, nel suo Saggio sul juke.boxIn questo libro, lo sguardo dello scrittore austriaco, osservatore intensamente partecipante, si sofferma sul rapporto fra oggetto e luogo, in un periodo – il Secondo dopoguerra – che vide affermarsi forme di spaesamento diverso rispetto a quello degli anni tragici del conflitto, ma di non minore impatto, sulla lunga durata, per la cultura materiale.

FARE SPAZIO

Eppure, il juke-box di Handke ci parla di altro che dello spaesamento. Ci parla della possibilità di radicare l'esperienza in un luogo differenziato, in un luogo che una macchina (sì, una macchina) sa riaprire alla socialità. Per quanto possa sembrare paradossale – e lo è -, per quanto non sia stato esente da critiche anche dure, il juke-box con la sua componente effimera (una monetina, una canzone) ha contribuito a questo radicamento diventando simbolo di almeno due generazioni, anche di italiani. 

Con l’inurbazione e la crescita spontanea e spesso abnorme delle cinture periferiche – quelle che a Milano chiamavano “Coree” – il juke-box, situato nei locali e sotto i pergolati, divenne infatti qualcosa di più di un congegno elettro-meccanico. Divenne al tempo stesso un aggregatore sociale e un oggetto dinamico-relazionale. Qualcosa attraverso cui, per dirla con Handke, fare spazio.

"Fare spazio" significa, in questo caso, aprire il luogo, per riempirlo di qualità. Significa aprirlo a una densità affettiva che determina l'atmosfera. Il livello empatico di questa atmosfera si misura in gradi di socievolezza. Atmosfera e socievolezza sono infatti i due concetti chiave che contribuiscono a modificare, a conservare o a spegnere il genius loci, lo spirito di quel luogo (e di quel locale).  

Attorno al juke-box, infatti, si organizza un luogo comune. Il genius loci non viene interamente spiantato dal rumore e dalla macchina, perché in quello spazio che la macchina contribuisce a creare l'interazione non è con la macchina, ma con altre persone: davanti a un juke-box si parla, si balla, ci si innamora, si sogna.

Sono spazi, questi dei juke-box, fotografati nelle istantanee del filone popolare dei “musicarelli”, i film-canzone che, protagonisti Celentano, Morandi & co, proprio a partire dagli anni '50 costituirono  un vero e proprio sottogenere di successo, con il juke-box a fare da presenza attoriale non umana costante (cfr.  I ragazzi del juke-box  di Lucio Fulci, del ’59).

https://www.youtube.com/watch?v=fOD1RmiJPcQ

Dopo una falsa partenza negli ultimi anni della guerra, quando arrivarono al seguito dei soldati americani, ecco il boom: se nel 1958 i juke-box erano 4000, nel 1965 saranno più di 40.000  (estrapolo i dati dal saggio di G. Crainz, Storia del miracolo italiano, Donzelli, Roma 2005, p. 82).

Il juke-box di Handke è una macchina a suo modo fordista. Organizza il tempo libero –  nel senso di "libero dal lavoro" – senza espanderlo oltre il limite del proprio tempo. Senza invadere ogni ambito e ogni sfera della vita quotidiana.

SOCIEVOLEZZA E OZIO

In questo senso, come scrisse nel '59 Roberto Leydi sulle pagine dell'Europeo, il juke-box e il nascente rock & roll "urlavano" per schiere di cassiere e meccanici di periferia.  

La voce del juke-box fa capolino in una poesia titolata La persecuzione (da Poesia in forma di rosa, Garzanti, Milano 1964) dove Pier Paolo Pasolini racconta di gente che "oziava, in una torbida miseria // di siepi attorno a un bar".

Era la plebe romana, il popolo. Quel popolo i cui "ignari giovincelli, in schiera // quasi a urlare che è innocente chi è forte, / misero el loro juke-box un gettone // e una musica nuova cantò la loro sorte".

Ovviamente non mancarono critiche, nemmeno ai juke-box, che finirono al centro di indagini sul racket e la mala. Non mancò nemmeno, sia chiaro, chi li descrisse come passatempo per spiantati e perdigiorno, ma la sua natura sociale non veniva meno per questo. E nel suo rapporto col luogo, il juke-box non ne mutava la destinazione sostanziale creando barriere di indifferenza, tutt'altro.

"ANCHE LO SCONTRO È VITA"

Il locale che ospitava il juke-box, il bar, sembrava costituirsi come un vero e proprio spazio di sfera pubblica temporanea, come luogo di  incontro potenziale e informale. 

In tal senso, di questo spazio, i citati "musicarelli"  rappresentano nient'altro che lingenua mappa affettiva e l'atmosfera di socievolezza del luogo.  

Elogio del bar (Elliot, Roma 2014)

Nel suo Elogio del bar, la catanese Goliarda Sapienza parlerà come di un luogo creato e dominato dal caso.  

Scrive: "Io che vengo da una città dove ci sono più bar che panetterie, vi posso assicurare che niente uguaglia quello spazio – povero o ricco che sia – voluto dal misconosciuto dio del Caso".

Goliarda Sapienza insiste sulla casualità non meccanica che abita il campo energetico-affettivo del bar:

"Lui, il caso, giovinetto aereo impalpabile, ha avuto in dotazione da madre natura l'arma di fomentare sguardi, sussurri, gesti, parole amicali e perché no schiamazzi, urla, invettive e perché no – penso abbattendo dentro di me la nemica autocensura che tanto affligge le nostre menti cresciute in democrazia  – e perché no, riprendo – calpestando la medesima autocensura che mi urticava e mi ostacolava il pensiero – e perché no anche l'urlo, lo schiaffo, il pugno insomma: anche lo scontro è vita".

Il vero antagonista del bar – lo avremmo capito dopo, molto dopo – non erano lo scontro o il conflitto, e nemmeno la "mala" immortalata in tanti film poliziotteschi degli anni '70. Il vero antagonista del bar non era nemmeno la logica della speculazione urbana (gentrification), ma un demone intenro. Il vero antagonista del bar era (è) la solitudine e la creazione, all'interno del suo spazio, di zone, nicchie, micro e pseudo ambienti, proliferati attorno a ben altre macchine… 

@oilforbook

 

 

 

 

 

 

 

 


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