Un tempo c’era la Svizzera. Nell’immaginario comune era un luogo fiorito, meta di lavoratori e industriali in cerca di fortuna. C’è ancora chi emigra, con azienda e famiglia, perché – ci dicono – le tasse si pagano, ma si paga molto meno.
Gli stereotipi son duri a morire, ma le persone, qui come altrove, non sono stereotipi. Sono fatte di carne e anima e relazioni, non di parole.
Uno studio pubblicato sul numero di dicemre della Tribuna Medica Ticinese, il mensile del locale Ordine dei Medici, ci rivela così che, a un’analisi comparata dei dati tra le province di Varese e Como e il confinante Canton Ticino, tra il 1999 e il 2010 è stato quest’ultimo a spiccare per numero di suicidi.
Un dato che ha stupito gli svizzeri, per una doppia ragione: il Ticino ha un numero di suicidi inferiore rispetto alla media svizzera, ma superiore rispetto a due realtà limitrofe (Varese e Como) maggiormente colpite dalla coda lunga della crisi.
Stando alle ultime rilevazioni disponibili, in Svizzera i suicidi sono 1300 l’anno, di cui 827 uomini e 278 donne. Sono esclusi, da questa triste statistica, i suicidi assistiti, legali in alcuni Cantoni e – ovviamente – i circa 15.000 tentativi di suicidio che si verificano ogni anno. Parliamo in sostanza della quarta causa di mortalità, dopo tumori, malattie cardiovascolari e incidenti. Se consideriamo i giovani tra i 15 e i 19 anni, però, il suicidio è la prima causa di mortalità.
È pur vero che, tra il 1991 et 2011, il tasso di suicidi in Svizzera è passato da 20,7 (su 100.000 abitanti) a 11,2. Ma nello stesso periodo, segnalano le statistiche, si è assistito a una vertiginosa crescita del consumo di antidepressivi (tra il 1995 e il 2009 si è stimata una crescita media europea del 20%). Oggi sono proprio la disperazione, la solitudine, le difficoltà economiche a spingere molti al gesto estremo. Ultimo è il caso dei contadini, schiacciati dalle logiche dell’agrobusiness → qui.
Ma anche i megamanager registrano un tasso crescente di persone che decidono di farla finita. È dell’agosto scorso il caso di Pierre Wauthie, alla guida delle assicurazioni Zurich . O quello di giugno 2013 di Carsten Schloter, di Swisscom. Allora si era parlato di “sindrome da burn out“. Ma le cose, come sempre, sono un po’ più complicate di quanto nomi e numeri e sigle non dicano. C’è il piano inviduale, la tragedia della solitudine e del lavoro – “alto” o “basso” che sia. C’è, ma c’è anche un nodo sociale che ancora non abbiamo afferrato e, di conseguenza, affrontato. Di qua e di là dal confine, dentro e fuori dall’Europa comune, nel frattempo, genericamente “si muore”.
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