Mondo
Anche il business italiano scappa dallo stato-caserma
I rapporti (e gli affari) con il Paese dei profughi in fuga
Nell’ex colonia, dopo anni di contratti redditizi, è iniziata
la ritirata dei nostri imprenditori. E a difendere il dittatore
è rimasto solo un assessore lombardo… Frecce tricolori a Tripoli, dolce ritirata da Asmara. Nell’Italia degli sbarchi e dei respingimenti, del dramma del naufragio del barcone carico di 78 eritrei, il governo di Roma rimescola le carte del suo passato coloniale. Strette di mano in Libia, una spider nuova fiammante per i 40 anni di potere del leader Muhammar Gheddafi, inaugurazioni di strade e di ponti, contratti di gas e petrolio. In Eritrea, colonizzata dagli italiani nel 1879, dove la colazione ha ancora l’aroma del cappuccino, il pranzo di spaghetti al ragù e lo sport nazionale è il ciclismo sognando i Bartali e i Coppi, inizia il fuggi fuggi. C’è un dittatore di ferro ad Asmara, Isayas Afewerki, pronto a finanziare le coorti islamiche in Somalia pur di ostacolare i piani egemonici sulla regione dell’Etiopia, e ce n’è un altro in Libia, ricco di risorse naturali, ma capace di trattare con l’Occidente.
Nel Paese africano, il secondo più militarizzato al mondo (200mila soldati su 3,5 milioni di abitanti), dietro solo alla Cina, già operavano imprese di costruzioni. Paolo Berlusconi, con la sua Italcantieri, progettava di costruire 5mila villette a Massaua cercando di cogliere l’onda della scoperta del turismo di massa sul Mar Rosso. Il gruppo tessile bergamasco Zaimbati ha aperto una fabbrica da 2.600 posti di lavoro per sfornare camicie e indumenti di cotone; la Technobrake produce impianti frenanti, mentre Rossi & Catelli, azienda di macchinari agricoli di Parma, ha installato tre impianti per la lavorazione di pomodoro, olio e soia. Lungo la scia del ritorno in Eritrea sono arrivati poi cementieri e marmisti: la Gedem, la Piccina spa e la Mordenti.
Afewerki, il presidentissimo, come il collega Gheddafi non disegna però il coup de théâtre. E tre anni fa si innamora della villa del re della birra eritrea, Riccardo Melotti, tanto da farlo sloggiare con le maniere forti. Imbarazzo della Farnesina, intenta a tessere il filo di rinnovate buone relazioni, urla dai banchi della sinistra all’opposizione perché il governo tratta con i despoti. Tant’è che tra gli imprenditori italiani d’Eritrea c’è poca voglia di parlare di business, preferendo il low profile del «sbaracchiamo tutto e ce ne torniamo a casa». I rubinetti delle società pubbliche per gli investimenti esteri sono chiusi.
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