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Amnesty International: “il rimpatrio dei migranti non può essere l’unica soluzione”

Intervista a Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, secondo cui l’evacuazione dei centri di detenzione in Libia annunciata da UE, Unione Africana e Onu presenta ancora moltissime criticità, prima tra tutte l’assenza di garanzie per molte persone in fuga da conflitti, persecuzioni e povertà estrema

di Ottavia Spaggiari

Non condivide l’ottimismo espresso da molti sul piano di evacuazione dei centri di detenzione libici, Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, secondo cui l’accento è posto ancora in maniera troppo forte sul rimpatrio dei migranti, senza però considerare alcuna garanzia sulla situazione di sicurezza che quelle persone troveranno una volta uscite dalla Libia.

Quali sono le preoccupazioni di Amnesty International relativamente all’annuncio dell’evacuazione dei centri di detenzione in Libia?

Ci sarebbe bisogno di un piano di evacuazione straordinario che non prevedesse solo il rimpatrio volontario, ma anche l’arrivo in un Paese sicuro e alternative che comprendano il ricollocamento. L’enfasi è stata posta solo e soprattutto sul ritorno ai Paesi d’origine sulla base di un presunto principio di volontarietà. È evidente però che chiunque abbia vissuto le violenze e la schiavitù dell'inferno libico desidera andarsene al più presto da lì.

L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni ha parlato di “un’importante operazione che intende aiutare 15mila persone a ritornare a casa” e anche Unhcr si è detto ottimista rispetto all’annuncio delle autorità libiche dell’apertura di una “struttura di transito e partenza” a Tripoli. Avete avuto un confronto a riguardo?

Stiamo assistendo ad espressioni di grande fiducia e grande ottimismo che però ci sembrano infondati. Sembra che l’enfasi sia posta solo sullo svuotamento dei campi ma non sul destino delle persone. L’evacuazione dovrebbe essere fatta su criteri umanitari ma mi sembra che qui non si prendano in considerazione le condizioni in cui si troveranno tutte queste persone dopo aver lasciato la Libia. Se si scappa dalla Nigeria per sfuggire a Boko Haram o perché si appartiene ad una minoranza perseguitata, il ritorno al Paese d’origine non può rappresentare l’unica opzione. In Libia non c’è la piena operatività degli organismi che si occupano delle richieste d’asilo, le persone sono rimandate indietro basandosi esclusivamente sul principio di nazionalità.

La Libia non ha firmato la Convenzione di Ginevra e solo sette nazionalità possono essere considerate per lo status di rifugiato…

Esatto, per questo chi non appartiene a quei Paesi ma è comunque in fuga da conflitti, persecuzioni e povertà estrema in questo momento non ha nessuna possibilità. Penso alle vittime di tratta, rimandarle indietro non può essere l’unica opzione per loro.

Quali sono le vostre richieste?

Prima di tutto chiediamo che i centri di detenzione siano censiti. Non si capisce se l’evacuazione si riferisca ai centri più o meno ufficiali controllati dal governo, a quelli legati alle milizie, oppure ai centri del tutto informali, ricavati nei garage, nei magazzini e nelle baracche dei campi agricoli. Non abbiamo ancora un censimento e nessuno ha ancora messo piede in molti di questi centri. E poi chiediamo più opzioni, che le persone siano davvero tutelate.

Che priorità ci sono in questo momento?

Per citare il film di Andrea Segre, “invertire l’ordine delle cose”, sospendendo la cooperazione con quei Paesi che non danno alcuna garanzia sui diritti umani. Gli accordi come quello fatto con la Turchia e gli accordi bilaterali Italia-Libia vanno a rafforzare proprio quelle pratiche che violano i diritti.
È il gioco delle tre carte con la Guardia Costiera libica che intercetta le persone in mare e le riporta in quei centri di detenzione dove non vi è alcuna garanzia sulla vita delle persone. Per cambiare le cose bisogna ripartire da qui.

Foto: Sintesi

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