Welfare

Amministratori di sostegno contro l’eutanasia sociale

Tiziano Vecchiato, presidente della Fondazione Zancan, propone che questo istituto, introdotto quasi 20 anni fa, sia inserito nei Livelli essenziali di prestazione sociale - Leps e che il Terzo settore si candidi a offrire i profili necessari, così da assicurare una vera tutela dei soggetti fragili. «Quando una persona continua a vivere ma non è più capace di gestire pienamente se stesso»

di Rossana Certini

A quasi vent’anni dall’istituzione della figura dell’amministrazione di sostegno, la Fondazione Emanuela Zancan onlus pubblica una ricerca che fotografa gli effetti e le criticità della legge nazionale; i modelli territoriali che si sono creati a supporto di questo istituto e il valore aggiunto derivante dalla funzione dell’amministratore di sostegno.

Il principio fondamentale della legge 6 del 9 gennaio 2004, che introduce questo istituto, è quello di tutelare le persone prive di autonomia, in tutto o in parte, nello svolgimento delle attività della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente che limitino al minimo la loro capacità di agire.

«Ci siamo chiesti», spiega Tiziano Vecchiato, presidente della Fondazione Zancan, «se l’istituto dell’amministratore di sostegno è riuscito a far superare gli approcci da “eutanasia sociale” che spesso, purtroppo, si osservano quando una persona continua a vivere ma non è più capace di gestire pienamente se stesso. In passato la giurisprudenza consentiva di dichiarare una persona non più tale. E ora cosa succede? Dallo studio emerge come negli ultimi dieci anni la capacità di affiancamento è progressivamente cresciuta. Dunque non più persone interdette ma affiancate da chi può aiutarle a gestire scelte di vario tipo: da quelle patrimoniali a quelle legate alla cure mediche».

Le oltre 170 pagine dello studio, pubblicato sul numero monografico di aprile della rivista «Studi Zancan. Politiche e servizi alle persone», presentano un monitoraggio dell’attuazione, a livello regionale con particolare riferimento ad Abruzzo, Emilia-Romagna, Liguria, Marche, Sardegna, Umbria e Veneto; analizzano la norma sull’amministratore di sostegno e le criticità riscontrate nella sua applicazione e, infine, individuano il “valore aggiunto” che scaturisce dall’esercizio di questa nuova funzione grazie a un’indagine a cui hanno partecipato 738 persone: 465 amministratori di sostegno, 255 assistenti sociali e 18 giudici tutelari operanti nelle sette regioni coinvolte nello studio.


«Il nome di questo istituto», prosegue Vecchiato, «ha al suo interno tutta l’importanza del ruolo che deve svolgere. Ossia: amministrare e sostenere. I risultati della ricerca, però, ci dicono che in questi anni non è stato sempre facile bilanciare le due funzioni nella stessa persona. Infatti, c’è chi ha aiutato più ad amministrare e chi a sostenere. Con una prevalenza dei primi sui secondi come se la persona equivalesse solo al suo patrimonio. Tutto questo non è nello spirito della norma ed è dovuto a un numero alto di professionisti che svolgono questa funzione. La situazione è migliore nelle regioni in cui si è predisposto un testo organico che regola l’istituto, si sono considerate le azioni su bacini territoriali omogenei e il volontariato ha avuto un ruolo importante nel passare dai principi alle azioni. Infatti, un volontariato “militante” sul territorio ha la capacità di agire in favore di queste persone: segnalando situazione a rischio, trovando risposte ai loro bisogni e formando chi lo desidera ad amministrare e accompagnare. In questi anni molte realtà di volontariato hanno attivato percorsi di formazione e sportelli informativi. È così che sono emerse le disponibilità tra i cittadini a diventare amministratori di sostegno».

Come spiega Vecchiato: «un altro nodo importante è quello dell’equo indennizzo che in alcuni casi va in deroga alla gratuità della tutela. Certo l’amministratore di sostegno dedica del tempo a questa attività. Ma ha un valore diverso chiedere del tempo a un volontario o a un professionista. Nel primo caso il compito è svolto in modo solidale, nel secondo è spesso remunerato. Dunque essendo la tutela da svolgersi prevalentemente in maniera gratuita sarebbe opportuno che aumentasse il numero dei cittadini che volontariamente scelgono di diventare amministratori di sostegno», e aggiunge, «dalla nostra osservazione emerge, anche, che in questi anni gli Enti del Terzo settore (Ets) non si sono ritagliati un loro spazio specifico in questo ambito. A muoversi, in maniera a volte anche eroica, è stato prevalentemente il volontariato di impegno e promozione sociale. Infatti, i risultati migliori che vediamo nelle regioni come il Fiuli Venezia Giulia, la Liguria, la Sardegna e il Veneto, sono riconducibili proprio all’impegno messo in campo dalle associazioni di volontariato».

Dunque gli Ets dovrebbero attivarsi per dare supporto a chi volontariamente vuole svolge questa funzione anche perché, prosegue Vecchiato: «il loro ruolo potrebbe essere molto importate per far emergere gli aspetti di “sostegno” della figura che al momento, come dicevo, è più piegata sugli aspetti amministrativi. L’istituto dell’amministratore di sostegno è anche una bella sfida per i giudici che devono non solo scegliere chi deve svolgere il ruolo ma anche seguire e monitorare nel tempo come l’istituto viene portato avanti concretamente dalla persona scelta. È un cambio di paradigma che avvicinerebbe la figura di questi giudici a quella di quelli minorili».

Chi sceglie volontariamente di diventare amministratore di sostegno in qualche modo risponde concretamente all’articolo 4 comma 2 della Costituzione che dice: «ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società».

«Da alcuni anni – conclude il presidente della Fondazione Zancan – per misurare come il nostro welfare garantisce i diritti, utilizziamo i Livelli essenziali di assistenza (Lea) e i Livelli essenziali delle prestazioni sociali (Leps). Ecco che, se il numero degli amministratori di sostegno fosse equamente distribuito sul territorio, questo istituto potrebbe diventare un Leps di cittadinanza sociale. Ossia se su un bacino territoriale ci fosse una capacità di risposta tale da soddisfare tutte le richieste, sarebbe possibile affiancare chi ne ha bisogno con persone capaci di svolgere attività di prossimità solidale. Si garantirebbe un diritto esigibile. Perché tutto questo avvenga, però, è indispensabile fissare un numero di amministratori di sostegno sotto i quali non si può andare. Formare i cittadini volontari perché siano consapevoli del ruolo che svolgono. E creare le condizioni perché diventi un livello di assistenza garantito. In questo modo si risolverebbe in maniera sostenibile un annoso problema di welfare legato alla tutela dei soggetti fragili».

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