Non profit
Amici, mi sembrate dei burocrati. Firmato don Gnocchi
Una lettera del fondatore della Pro Juventute
di Redazione

Milano, 1951. Il grande sacerdote scrive a Mariuccia Meda, una delle sue più strette collaboratrici, e si sfoga. Pensieri liberi e amari, che «Vita» ripropone per lanciare un dibattitoCara Mariuccia, è una sera molto triste questa, che mi fa sentire la nuova condizione in cui mi sono venuto a trovare, ormai totalmente, dopo la tua, pur necessaria, prevista e felice (per la bella ragione che l’ha provocata), assenza dal lavoro di questa nostra Opera che tu hai visto nascere. Ho avuto, per varie ragioni ed occasioni, oggi come non mai, la sensazione della mia solitudine spirituale e ne ho molto sofferto; come del resto da tempo ormai mi capita, senza rimedio. Ed ho sentito il bisogno, la debolezza, se vuoi, di scrivertelo. Almeno perché tu comprendessi anche meglio, a tua soddisfazione e premio, la bellezza e l’importanza dell’opera che tu hai compiuto accanto a me in questi anni.
La ragione vera ed intima della mia tristezza, quella che da tempo forse influisce sul mio carattere e sul mio lavoro, è questa, anche se non facile a dirsi: Quella di non sentirmi più circondato dalla poesia della carità e dall’ideale del fare il bene per il bene, in quelli che ora sono diventati i miei collaboratori. Ho degli “impiegati” intorno a me; distaccati dal lavoro cui attendono; che non hanno l’angoscia di economizzare il tempo, il gusto del sacrificio, che “calcolano” la loro prestazione, che fanno sentire quanto danno più del dovuto, che non si interessano, per goderne o soffrirne, delle sorti buone o tristi dell’istituzione, che non hanno progetti, disegni, critiche da fare ma si accontentano di eseguire; e insomma non lavorano con me e come me, ma accanto a me.
Quando nacque la nostra Opera era una cosa ben diversa, tu ricordi. Era una cosa di tutti e di ciascuno. Eravamo, tu, la Bertolini, il Dr. Bodini, la Wenner. Ed abbiamo fatto, per questo spirito, un lavoro veramente prodigioso per mole e rapidità. Quando io guardo l’archivio con tutte le migliaia di carte, mi stupisco di come abbia potuto scrivere tanta roba e trattare tante pratiche. In una qualunque azienda commerciale ci sarebbero voluti decine di impiegati! Come abbiamo potuto mettere in piedi le Case di Milano, Pessano, Genova, Parma, Roma, Torino, da soli, fare gli acquisti, spedire la roba, dirigere i lavori, organizzare le cerimonie, trovare il personale, indire iniziative colossali quali l’Angelo dei bimbi, la Catena della felicità, le raccolte di fondi, trovare gli amici, i fondi ecc. ecc.? È una cosa che solo si spiega con la Divina Provvidenza, per quanto riguarda la parte di Dio, e con la nostra passione, per quanto riguarda la parte degli uomini.
Nessuno badava al tempo, al sacrificio, faceva distinzione di compiti o di doveri, e ciascuno faceva, a turno ed opportunità, il dattilografo, l’archivista, il fattorino, il facchino, l’autista, la personalità, il meccanico, il portalettere, il correttore di bozze, l’autore ecc. ecc.
Questa era la poesia che ora, come tu sai, è morta, per dar luogo alle burocrazia. In minuscolo, se vuoi, ma sempre burocrazia. Che non vuol dire carte e pratiche (ce n’era tanta anche allora di carta) ma disinteresse e distacco da quello che si tratta.
Non vorrei che queste mie parole ti rattristassero però. Se te le ho scritte è unicamente perché tu senta tutta la poesia del lavoro che hai fatto e che resterà nella tua vita come un caro e consolante ricordo e comprenda, nella sua verità, anche qualche resistenza che io ho fatto alla tua partenza dalla Federazione. Mi pareva che, andandotene tu, partisse l’ultimo testimone di quell’atmosfera che abbiamo vissuto per cinque anni, fatta di santa febbre di lavoro, di speranze e di arrabbiature, di progetti e di scoperte, di gioie e anche di delusioni, fatta soprattutto di contatto vero con i Mutilatini, con veri e cari Amici della causa, e di pieno affiatamento con noi stessi.
L’unica consolazione di questo sacrificio è di vedere ora la tua serenità e la tua gioia per l’affetto che ti dà Gianfranco. Ti assicuro Mariuccia.
Scusami lo sfogo. Tu sai che è la prima volta che ti scrivo queste cose e in questo tono di confidenza. Ma, a parte che ne sentivo io il bisogno e forse la debolezza, tu stessa è bene che comprenda appieno don Carlo e la sua pena odierna. Almeno per pregare più affettuosamente per lui e per apprezzare nella sua realtà il bene che gli hai fatto.
Riposati e sii serena nel Signore. Con affetto
Don Carlo
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