Welfare
American Killer
John Muhammad, il serial killer di Washington, era un reduce del Golfo. La sua storia è lemblema di un Paese terrorizzato dalle sue stesse armi.
Dieci morti e tre feriti, la capitale americana Washington e i suoi sobborghi residenziali paralizzati per tre settimane, lo spettro del terrorismo che riappare sul suolo americano, il panico che si impadronisce della popolazione. Solo il 24 ottobre, alle 3,30 del mattino, John Muhammad, 41 anni, e John Malvo, 17 anni, vengono arrestati. I cecchini che uccidevano a caso sono loro.
Sembrava l?opera di un serial killer come Jeffrey Dahmer, che uccise 17 persone tra il 1978 e il 1991, oppure John Gacy, che tra il 1972 e il 1978 fece 33 vittime. Dahmer e Gacy avevano come obiettivi dei ragazzi, oppure degli omosessuali. Joel Rifkin (17 morti) e Ted Bundy (40 omicidi) prendevano di mira le prostitute. Muhammad e Malvo, invece, sparavano a persone qualsiasi, impegnate nella routine giornaliera: l?uomo che si fermava al distributore di benzina, la donna che usciva dal supermercato con il carrello della spesa, un ragazzo che usciva di casa per andare a scuola. Impossibile trovare un movente e quindi costruire un profilo dell?assassino.
John Muhammad è stato tradito dai contatti con la polizia, dalle tracce lasciate deliberatamente sui luoghi degli omicidi, da un?impronta digitale che combaciava con quella presente negli archivi dell?esercito, dove aveva servito per nove anni, combattendo anche in Kuwait. Ora l?incubo è finito e il processo si svolgerà in Virginia per decisione del ministro della Giustizia, John Ashcroft: lì è più facile ottenere la pena di morte anche per un minorenne come John Malvo, che ha solo 17 anni.
Ma è finita davvero? Le cronache non hanno messo in rilievo il fatto che Muhammad, un nero di origine giamaicana convertito all?islam, è un reduce della guerra del Golfo, come Timothy McVeigh, l?autore dell?attentato di Oklahoma City nel 1995, che provocò 168 morti. Come lui, era stato incapace di riadattarsi al ritorno alla vita civile. Come McVeigh, Muhammad campava di lavori saltuari, si spostava in continuazione e manteneva un interesse ossessivo per le armi.
Muhammad aveva lasciato moglie e figlio quando si era arruolato; McVeigh, la cui madre aveva lasciato la famiglia quando lui aveva sedici anni, aveva trovato nell?esercito la famiglia di cui aveva bisogno. Entrambi avevano imparato a usare le armi con estrema perizia (McVeigh fu anche decorato per questo) e, nello stesso tempo, a nutrire un profondo disprezzo per i nemici, per i civili, per la società intera.
Come potrebbe essere diversamente? Gli eserciti sono macchine per lo sterminio, non circoli degli scacchi. Gli Stati Uniti sono un paese guerriero, costruito metro per metro strappando il territorio del continente agli indiani. Nell?ultimo secolo non si potrebbero trovare cinque anni di fila in cui il Paese sia rimasto senza intervenire all?estero in qualche forma, come mostra il bel libro di Gordon Poole Nazione guerriera, edito da Colonnese a Napoli.
Questa macchina militare, che gli estensori della Costituzione americana temevano più di ogni altra cosa, ha modellato la cultura degli Stati Uniti: per le élite, l?uso della forza è una banalità: «In nessun luogo la normalità di uccidere grandi numeri di persone è semplice routine come a Washington», ha scritto recentemente Sam Smith sulla Progressive Review. Per le masse, la legittimazione delle uccisioni per decisione governativa prende la forma del culto delle armi da fuoco e della propensione a usarle senza pensarci troppo.
Durante l?offensiva finale contro Saddam Hussein, nel febbraio-marzo 1991, l?esercito americano perse 148 uomini nella battaglia contro le truppe irachene. Nello stesso periodo, i decessi dovuti ad armi da fuoco negli Stati Uniti furono 6.386: l?americano medio, come killer di se stesso o di altri, è 49 volte più efficiente di un esercito straniero dotato di cannoni, carri armati, armi chimiche e missili Scud. Un esercito talmente pericoloso, secondo l?amministrazione Bush, da richiedere una nuova guerra preventiva per metterlo in condizioni di non nuocere.
Nel 1992, le infermiere del pronto soccorso di un ospedale pubblico di Washington, mobilitate e inviate al fronte, tornarono dichiarando che, in confronto alle ferite da arma da fuoco cui erano abituate, il Kuwait era stata una vera vacanza. Nel 2002, John Muhammad e John Malvo hanno dimostrato che il prezzo della violenza domestica rimane enorme.
L?attentato dell?11 settembre 2001 contro le Twin Towers a New York e contro il Pentagono a Washington ha provocato circa 3mila vittime. Il feticismo americano per le armi è responsabile di oltre 28mila morti ogni anno, se si contano insieme omicidi e suicidi. Le vittime di questa guerra non dichiarata sono poco meno di quelle provocate da nordcoreani e cinesi in tre anni di conflitto in Corea (33mila). Due anni di vita normale nelle città americane producono un numero di morti uguale a quello patito in nove anni di guerra del Vietnam. Con la differenza che i 58.168 nomi dei caduti in Asia sono incisi nel marmo nero del Vietnam Memorial di Washington, mentre i nomi delle vittime della violenza urbana vengono ben presto dimenticati, diventano statistiche anziché individui in carne e ossa.
John Muhammad finirà ben presto nel braccio della morte, la macchina che lo ha costruito lavora a pieno ritmo.
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