Cultura
Ambrosoli, il valore della legalit
La memoria del sacrificio del giovane avvocato civilista milanese non si affievolisce. Una vicenda che il rischio di fare il proprio dovere e avere il senso della professionalit
di Marco Vitale
Sono passati 26 anni da quella triste sera del 12 luglio 1979, quando un anonimo sicario professionale che veniva da lontano giustiziò, su mandato e per vendetta, il giovane avvocato civilista milanese Giorgio Ambrosoli. 26 anni, un quarto di secolo, sono un periodo lunghissimo.
In questi 26 anni i figli di Giorgio Ambrosoli sono diventati adulti e professionisti, la figlia è madre di una felice nidiata e la giovane moglie Annalori, giovane non è più. Eppure la figura di Giorgio Ambrosoli rimane tra noi e diventa più viva e limpida con il passare del tempo. Al momento del suo assassinio il Paese ufficiale e anche i vertici della sua città non capirono e non onorarono il suo martirio con una presenza adeguata. Il grande quotidiano economico Il Sole 24 Ore dedicò all?evento una breve notizia di esattamente quindici righe. Paolo Baffi, governatore della Banca d?Italia, e persona di altissimo livello morale e intellettuale, da poco colpito anche lui nell?onore e umiliato da una congiura politico – giudiziaria – mediatica, nel suo diario del 1979, al 14 luglio, annota: «Vado al funerale di Ambrosoli. Le istituzioni della Repubblica sono assenti, salvo la Banca d?Italia. Ci sono però i giudici Viola e Urbisci».
Dopo di allora, lentamente ma costantemente, il significato di Giorgio Ambrosoli e del suo sacrificio è andato crescendo. Si sono scritti libri, si è girato un film di qualità, gli sono state dedicate strade e aule di giustizia, si sono fatte tante commemorazioni, gli sono state dedicate borse di studio. E, ancora oggi, un editore importante pensa che vi sia spazio per un nuovo libro. Perché? Io voglio concentrare la mia riflessione su questo perché.
Perché un altro libro?
Nei decenni che abbiamo alle spalle molti sono stati i caduti nella lotta contro la malavita organizzata, poliziotti e magistrati. Nessun Paese che conosco può contare su tante croci di questo tipo che, se potessimo riunirle tutte in un unico prato verde, formerebbero un notevole cimitero di guerra. Eppure la memoria individuale di questi caduti è andata svanendo nel tempo, salvo forse per i più recenti ed i più vistosi come Falcone e Borsellino. Perché, invece, la memoria di Giorgio Ambrosoli non si diluisce ma anzi si rafforza con il passare del tempo? Perché Ambrosoli non era un soldato in lotta contro la malavita organizzata, come i poliziotti e i magistrati. Era un pacifico avvocato civilista che voleva fare il suo dovere professionale sino in fondo, come la sua coscienza professionale gli dettava, senza farsi impressionare da pressioni, senza farsi spaventare da minacce, senza farsi attrarre da lusinghe. Scorrendo lo scabro diario di Paolo Baffi si capisce come in quei mesi il vertice della Banca d?Italia era sottoposto a inaudite pressioni da parte di membri del governo, di parte della magistratura romana, di parte della stampa, per la sistemazione dei debiti di Caltagirone, per la sistemazione dell?insolvenza dell?Iccri, per il salvataggio della Sir di Rovelli, per la sistemazione dei debiti della Generale Immobiliare, per il salvataggio di Sindona.
Perché Ambrosoli?
Pressioni dalla Presidenza del Consiglio, minacce, lusinghe. è sulla capacità di resistere a tutto ciò, per coerenza professionale e morale, che si fonda la grandezza di Giorgio Ambrosoli, insieme a quella di Baffi e Sarcinelli, e che farà dell?avvocato Ambrosoli un eroe borghese e un martire civile. è per questo che la sua memoria e il significato della sua figura crescono con il tempo. Perché Ambrosoli rappresenta l?Italia civile, fatta prevalentemente di persone per bene, di professionisti fedeli ai valori di fondo della loro professione, di volontà di legalità, quell?Italia nella quale vorremmo vivere, ma che si allontana da noi sempre più velocemente. Fui il primo a dare una lettura non equivoca dell?assassinio Ambrosoli. Lo feci con un articolo di fondo su Il Giornale del 15 luglio, con il titolo «Perché Ambrosoli», che mi fu chiesto da Indro Montanelli (Ambrosoli era sindaco della società editrice de Il Giornale) e che Indro pubblicò senza toccare una virgola, come era suo costume di grande direttore, anche se, seppi poi, non era totalmente d?accordo. Allora scrissi senza incertezze che Ambrosoli era stato «assassinato dalla mafia». Ma aggiunsi anche: «L?assassinio di Ambrosoli è il culmine di vent?anni di un certo modo di fare finanza, di un certo modo di fare politica, di un certo modo di fare economia. I magistrati inseguano gli esecutori e i mandanti. Ma dietro a questi vi sono i responsabili, i responsabili politici. E questi sono tutti coloro che hanno permesso che la malavita crescesse e occupasse spazi sempre più larghi nella nostra vita economica e finanziaria; questi sono gli uomini politici che definirono Sindona salvatore della lira e si comportarono di conseguenza; sono i parlamentari comprati che insabbiarono i lavori della commissione antimafia; sono i governatori della Banca d?Italia che permisero che i Sindona penetrassero tanto profondamente nel tessuto bancario italiano, pur avendo il potere e il dovere di fermarli per tempo; sono i partiti che presero tangenti formate da denari rubati ai depositanti, sapendo esattamente che di questo si trattava; sono tutti quelli che, da vent?anni al vertice della politica e dell?economia, hanno perso persino il senso di cosa sia la professionalità, cioè il subordinare la propria fetta di potere, piccola o grande che sia, agli scopi dell?ordinamento, delle istituzioni, della propria arte o professione, all?interesse del pubblico».
Dopo 26 anni quella lettura esce confortata sia dalle evidenze processuali che dall?evoluzione della società italiana. Perciò è errato, riduttivo e pericoloso, inquadrare questa vicenda come uno dei tanti episodi di lotta con la mafia. Così facendo, tra l?altro, non riusciremmo mai a dare una risposta plausibile al ?perché? che ho posto al centro della mia riflessione. Ambrosoli non era in lotta con la malavita organizzata, e Sindona, anche se finì per legarsi sempre di più alla mafia, non era la malavita organizzata. Era un brillante avvocato d?affari e banchiere, rispettato e osannato da tutta la Milano danarosa, con molti professori della Bocconi al suo servizio e felici di esserlo.
Ambrosoli era solo un professionista che voleva fare il suo dovere. Era impegnato per qualcosa, per la difesa della legalità, un bene che tutti noi sappiamo essere prezioso per la nostra civile convivenza e che tutti noi sentiamo indebolirsi, giorno dopo giorno, ma non sappiamo più reagire, poco informati, stanchi e rassegnati, come siamo. Esiste una relazione inversa tra la memoria di Ambrosoli e la caduta della legalità: la memoria di Ambrosoli cresce quanto più il livello di legalità del Paese cade. Ambrosoli si trasforma così da icona della memoria in frammento di speranza, emblema della società civile, pacifica, normale nella quale vorremmo vivere e dalla quale ci sentiamo invece sempre più lontani. Da circa dieci anni stiamo cadendo in una spirale di illegalità e di immoralità che non ha eguali in nessun Paese avanzato.
La caduta della legalità
Non è pacifico, civile, normale infatti un Paese dove: il lavoro nero è pari al 27% del Pil (fonte: Ocse), segnando il fallimento di tutte le leggi per l?emersione del sommerso; l?evasione fiscale è di 200 miliardi di euro, più del doppio che in Francia (fonte: Secit); il fatturato annuo delle mafie è stimabile in 90 miliardi di euro e il patrimonio delle mafie è stimato in mille miliardi di euro (fonti varie compresa la Procura nazionale antimafia); gli affiliati alle mafie sono 1,8 milioni di persone, di gran lunga la maggiore impresa del Paese (fonte: Dia e Relazione della Commissione Antimafia – 2003); un?impresa come Parmalat può creare la più grande frode aziendale di tutti i tempi, attraverso un?attività durata almeno 15 anni, senza che nessuno se ne accorga (amministratori, sindaci, società di revisione, Consob, banche, Bankitalia) e con sanzioni che si preannunciano all?acqua di rose.
Non è pacifico, civile, morale, infatti, un Paese dove un esponente di spicco della vita economica italiana, come Carlo de Benedetti, può parlare sul Washington Post di «una perversa e non scritta alleanza tra politici, finanzieri e industriali che sta lentamente distruggendo l?Italia»; dove la Banca d?Italia dal prestigio altissimo che aveva al tempo di Baffi, Sarcinelli e Ambrosoli, è caduta a un bassissimo livello di credibilità e ad una, fondata o meno che sia, immagine, diffusa sia al suo interno che nel Paese e internazionalmente, di preoccupante parzialità e coinvolgimento. Non è normale un Paese dove il presidente della Confindustria calabrese scrive a Ciampi chiedendo l?intervento dell?esercito perché «la Calabria è già militarizzata dai boss della ?ndrangheta; sono loro i padroni del territorio»; un Paese dove il procuratore nazionale antimafia, Pierluigi Vigna dichiara: «Oggi la mafia esercita ed espande il controllo del territorio con la conquista di posizioni economiche dominanti o addirittura monopolistiche? dalla mafia un vero attacco alla Costituzione»; dove il vice presidente di Confindustria, il siciliano Ettore Artioli denuncia una caduta di tensione morale che agevola tutta questa drammatica involuzione.
Potrei continuare a lungo con questa triste litania, ma credo che basti. Ambrosoli non si batteva contro la malavita organizzata, ma per mantenere vive le condizioni necessarie perché la malavita organizzata non trionfi: per il principio di legalità, per il principio di professionalità, per il principio di responsabilità, per il diritto di fare l?avvocato seriamente e rigorosamente anche in vicende che toccano personaggi potenti.
Egli sapeva benissimo, peraltro, che battersi per la legalità, in un Paese profondamente malato sul piano morale e istituzionale, diventava un rischio mortale. Ed è qui che egli diventa un eroe borghese se facciamo nostra la definizione che di eroe diede, tanti anni fa, padre Giulio Bevilacqua: «Eroe è chi firma col sangue la vita conoscendone il valore e sacrificandola ad un valore più alto».
Giorgio Ambrosoli si batteva per quei valori fondamentali necessari per evitare di consegnare il Paese agli uomini dell?illegalità, a quelli che Bonvesin de la Riva chiamava: «gli uomini delle tenebre». Oggi l?illegalità, sia nella forma della criminalità dei colletti bianchi e della corruzione politica che in quella paramilitare della criminalità organizzata, è largamente vincente, anzi assolutamente dominante, tanto da sembrare invincibile. Ed è questa anche la causa prima del declino economico, soprattutto ma non solo, del Mezzogiorno.
Un frammento di speranza
Ma sino a quando continueremo a ritrovarci per parlare tra noi e pubblicamente di Giorgio Ambrosoli, in spirito di verità, ciò vuol dire che una tenue fiammella di speranza resta accesa in noi.
Come ha scritto Italo Calvino in Le Città invisibili: «L?inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n?è uno, è quello che è già qui, l?inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l?inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprezzamenti continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all?inferno, non è inferno e farlo durare e dargli spazio».
Giorgio Ambrosoli, il nostro frammento di speranza, ci addita, sorridendo, il secondo modo.
La lettera
Carissima Anna
Ecco chi era Ambrosoli in una lettera da lui scritta alla moglie nel febbraio 1975.
«Anna carissima, è il 25/2/75 e sono pronto per il deposito dello stato passivo della Banca Privata Italiana, atto che ovviamente non soddisferà molti e che è costato una bella fatica. Non ho timori per me perché non vedo possibili altro che pressioni per farmi sostituire, ma è certo che faccende alla Verzotto e il fatto stesso di dover trattare con gente di ogni colore e risma non tranquillizza affatto. è indubbio che in ogni caso pagherò a molto caro prezzo l?incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un?occasione unica di fare qualcosa per il Paese. Ricordi i giorni dell?Umi (Unione monarchica italiana, ndr), le speranze mai realizzate di fare politica per il Paese e non per i partiti? Ebbene, a quarant?anni, di colpo, ho fatto politica e in nome dello Stato e non per un partito. Con l?incarico ho avuto in mano un potere enorme e discrezionale al massimo e ho sempre operato – ne ho piena coscienza – solo nell?interesse del Paese, creandomi ovviamente solo nemici perché tutti quelli che hanno per mio merito avuto quanto loro spettava non sono certo riconoscenti perché credono di aver avuto solo quello che a loro spettava: e hanno ragione, anche se, non fossi stato io, avrebbero recuperato i loro averi parecchi mesi dopo. I nemici comunque non aiutano e cercheranno in ogni modo di farmi scivolare su qualche fesseria, e purtroppo, quando devi firmare centinaia di lettere al giorno, puoi anche firmare fesserie.
Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto».
Un eroe borghese
I libri e i film
Il Il 12 luglio 1979 l?avvocato Giorgio Ambrosoli viene assassinato dal killer mafioso William Aricò, assoldato da Michele Sindona. È il tragico epilogo di una vicenda iniziata nel 1974, quando ad Ambrosoli era stato affidato, dall?allora governatore della Banca d?Italia, Guido Carli, il compito di liquidare la Banca Privata Italiana di Sindona. Cinque anni ripercorsi da un libro da poco uscito in libreria, Il caso Ambrosoli. Mafia, affari, politica, di Renzo Agasso (San Paolo, pagine 176, euro 12,50). Libro che ha offerto occasione di dibattito grazie ad una presentazione promossa dall?associazione O.Mi.Le.Gi.S. (Osservatorio milanese sulla legalità e giustizia sociale), nel 26° anniversario della morte di Ambrosoli, occasione che ha visto anche l?intervento di Marco Vitale che qui proponiamo. La biografia più famosa di Ambrosoli è del 1991, firmata da Corrado Stajano, dal titolo Un eroe borghese, biografia da cui fu tratto il film omonimo di Michele Placido. Documenti alla mano vi si descrive l?impegno ostinato di un semplice avvocato – Giorgio Ambrosoli – che, trovatosi a fronteggiare gli ?scandalosi interessi di mafia? non esitava a seguire la sua ?etica di uomo onesto?, la sua ?resistenza umana? fino a venirne ucciso. E così, nel libro come nel film, mentre parallelamente scorrono, calde e affettuose scene di vita familiare, di normalità di rapporti, di svaghi, di ?vita civile?, si seguono gli intrighi di poteri economici occulti e pericolosi fino alle agghiaccianti telefonate minatorie (nel film riprodotte nelle registrazioni originali) e alla morte annunciata.
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