La giornata mondiale del 21 settembre

Alzheimer: troppa solitudine e abbandono

Un caregiver su cinque riferisce di non ricevere alcun aiuto, il 41,1% delle famiglie ricorre alla badante con un costo che rappresenta il 75% dei costi diretti ed è totalmente a carico delle famiglie. Lo mostra il rapporto Censis. Colpisce nel complesso la sostanziale staticità della condizione dei pazienti e loro caregiver

di Nicla Panciera

Photo by Huy Phan on Unsplash

Come è evoluta la malattia di Alzheimer nel nostro paese emerge da un rapporto Censis presentato in occasione della giornata mondiale Alzheimer che si celebra il 21 settembre. Sono pazienti tendenzialmente più giovani e di diagnosi più recente, molti dei quali sono persone occupate che hanno sperimentato ripercussioni sul lavoro. Lo stesso è accaduto ai caregiver, che sono in prevalenza tra i 46 ed i 60 anni e nel 55,3% dei casi lavorano. Quello che non cambia è la forte connotazione di genere della malattia, con il 62,2% di pazienti donna e oltre il 70% di caregiver di sesso femminile. 

È quanto emerge dal quarto rapporto realizzato dal Censis in collaborazione con Associazione italiana malattia di Alzheimer Aima, con il contributo non condizionante di Roche, dal titolo «L’impatto economico e sociale della malattia di Alzheimer dopo la pandemia da Covid-19», che ha analizzato l’evoluzione negli ultimi venticinque anni della condizione dei malati e delle loro famiglie attraverso un’indagine basata su un campione di 360 caregiver selezionati da Aima. Una importante novità di questo studio è la realizzazione di una ulteriore indagine su un campione di persone con una diagnosi di disturbo cognitivo lieve Mci.

Nessuno aiuta il caregiver familiare

Il caregiver è solo, può infatti contare su un minore supporto da parte degli altri membri della famiglia e anche della badante. Uno su cinque, cifra in crescita rispetto alle precedenti rilevazioni, riferisce di non ricevere alcun aiuto e si abbassa anche la quota di chi afferma di poter contare sull’aiuto di altri familiari. Il 68,3% dei caregiver afferma di sentirsi solo, ma l’84,9% ritiene di essere utile pur in una situazione di grande difficoltà. Tutta la famiglia appare condizionata dalla malattia del proprio congiunto: in oltre la metà dei casi sono segnalate tensioni tra i familiari. Il ricorso alla badante coinvolge il 41,1% delle famiglie, in linea con le precedenti rilevazioni, ma si inverte la proporzione tra badanti conviventi e badanti non conviventi, con una quota prevalente di non conviventi. Nella percezione della maggioranza relativa dei caregiver, la situazione dei servizi offerti è peggiorata dopo la pandemia. Emerge un aumento complessivo del costo medio annuo per paziente, che ha raggiunto i 72.000 euro, con un incremento in termini reali del 15% rispetto al 2015 della quota di costi diretti a carico delle famiglie.

La presa in carico

Più della metà dei pazienti (il 53,3% sul totale e quasi il 60% al Sud) non ha mai effettuato una visita presso un Cdcd Centro per i disturbi cognitivi e le demenze, e solo il 37,7% dei pazienti è seguito da un Cdcd (era il 56,6% ad essere seguito da un centro Uva nel 2015 e il 66,8% del 2006). Si registra un divario anche tra i pazienti presi in carico dal Cdcd: sono il 48,2% tra coloro che risiedono al Nord, contro un terzo circa di quelli che vivono al Centro ed al Sud.

Deficit cognitivo lieve: prevale la paura

Per la prima volta, sono stati intervistati anche i pazienti con deterioramento cognitivo lieve. Sono pazienti abbastanza giovani, l’età media è di 71 anni, il 45,1% del campione ha meno di 70 anni. In questo caso non si riscontra una prevalenza femminile, come nell’Alzheimer. il 68,5% denuncia la presenza di difficoltà nella propria quotidianità, quasi due pazienti su tre indicano di aver bisogno di una qualche forma di sostegno, ancora garantita dalla famiglia. Risulta più positiva la valutazione nei confronti dei servizi sanitari che attualmente seguono gli intervistati, dal momento che il 51,2% dei pazienti li giudica molto o abbastanza soddisfacenti. Al 54,4% è stato consigliato un percorso basato su stile di vita e terapie non farmacologiche, mentre il 41,2% è entrato a far parte di un protocollo sperimentale e il 38,2% assume farmaci per il trattamento dell’Mci. Il 90,1% degli intervistati afferma che è la paura di peggiorare a dominare la propria esistenza, e, se il 38,9% dice di impegnarsi per affrontare il futuro, il 34,0% afferma che vorrebbe pensarci ma non ci riesce. In relazione a ciò che è ritenuto più utile per affrontare i loro problemi, gli intervistati rispondono prima di tutto terapie farmacologiche efficaci (88,2%).

Le famiglie sono sole

«È grande l’amarezza nel constatare che la condizione delle famiglie colpite dalla malattia di Alzheimer continua ad essere drammatica» ha dichiarato Patrizia Spadin, Presidente di Aima. «Ancora una volta il Paese si è arenato sui “pannicelli caldi”. Politica e istituzioni non riescono a intervenire adeguatamente nonostante gli incessanti appelli che Aima, in 40 anni di pressante attività, ha continuato a lanciare. La preoccupazione aumenta di fronte ad una vasta platea di persone con deterioramento cognitivo lieve (Mci) che vanno individuate, valutate e prese in carico. Il nostro sistema di servizi non ha né personale, né spazi temporali e fisici, per accogliere altri pazienti. La politica si trincera dietro le solite scuse, le istituzioni divagano e traccheggiano, le famiglie sono sole. Eppure, la ricerca ci ha condotto ad un passo dal futuro: chissà quando riusciremo a fare questo passo».

La staticità della condizione di tutti

«Nonostante gli innegabili progressi nella conoscenza della malattia e della ricerca di questi 25 anni, quel che colpisce è la sostanziale staticità della condizione dei pazienti e dei loro caregiver: i 2 anni per arrivare alla diagnosi, le difficoltà ad avere un punto di ricevimento unico e costante nelle cure, l’accesso limitato ai farmaci, la carenza storica di servizi di assistenza a domicilio e sul territorio, la crescente solitudine dei caregiver» ha detto Ketty Vaccaro, responsabile Ricerca biomedica e Salute del Censis. «È poi emersa tutta la complessità della condizione delle persone che già sperimentano un disturbo cognitivo e che vivono nella costante paura di un peggioramento, e che hanno nei nuovi farmaci, che dovrebbero essere presto disponibili, l’unica speranza concreta».

Foto di Huy Phan su Unsplash

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