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Alzheimer: la mente bianca

In Italia colpisce mezzo milione di persone. La medicina per ora può poco; quasi tutto il peso ricade sulle famiglie. In Italia manca anche una mappatura dei servizi...

di Sara De Carli

500mila sono i malati. Il che vuol dire che i famigliari direttamente coinvolti sono – stiamo bassi, moltiplichiamo per tre – un milione e mezzo. Poi ci sono gli amici e i conoscenti: facciamo per cinque? Fa almeno 2 milioni e mezzo di persone. Sono quelli che in Italia conoscono da vicino l?Alzheimer. Per chi non è fra questi, c?è una sola cosa da fare: guardare i quadri di William Utermohlen. Nel 1995 gli è stato diagnosticato il morbo di Alzheimer. Da allora si è fatto diversi autoritratti, guardandosi nello specchio: le linee si fanno incerte, i lineamenti confusi. Essere e non essere, buchi sempre più frequenti nella lucidità e nella consapevolezza di sé: è questo che fa più paura. Ed è questo su cui i medici ancora non sanno dire nulla di certo. Un malato ogni sette secondi La prima diagnosi della malattia di Alzheimer fu fatta nel 1906 alla signora Auguste D., 51 anni, di Francoforte. Cento anni dopo, i numeri sono quelli di un?epidemia: 24 milioni di malati nel mondo, che raddoppiano ogni vent?anni. Praticamente un nuovo malato ogni sette secondi. Si inizia con la memoria che vacilla, con le domande ripetute, si perde l?orientamento, crollano le abilità cognitive, ci si trova spaesati dinanzi a oggetti e volti che non si riconoscono. E si finisce allettati, non paralizzati ma incapaci di stare in piedi, bambole di pezza. È la malattia della popolazioni vecchia, tant?è che grazie al prolungarsi della vita media le statistiche prevedono un +234% nel 2040 rispetto al 2001. Ed è la malattia dei paesi ricchi, a cominciare da Stati Uniti ed Europa Occidentale, anche se nel 2040 il 71% dei malati vivrà nei paesi oggi in crescita, India e Cina in testa. Come dice Jonathan Franzen, il cui padre aveva l?Alzheimer, «la demenza senile esiste da quando la gente ha i mezzi per descriverla». La malattia in realtà insorge verso i 40 anni, con il cervello che inizia ad accumulare la proteina beta-amiloide, ma i sintomi restano latenti anche per trent?anni. Il sogno dei ricercatori sarebbe quello di diagnosticare la malattia prima che i sintomi si manifestino, ci spiega Giovanni Frisoni, neurologo, dirigente di ricerca al Centro nazionale Alzheimer dell?Irccs Fatebenefratelli di Brescia. Per il momento sono in sperimentazione dei farmaci anti amiloide che fermano l?accumularsi della proteina nociva: «Non ci sono garanzie, scrivetelo chiaramente. E se anche andasse tutto per il verso giusto, i farmaci non saranno disponibili prima di 5-10 anni». La medicina ad oggi può poco. Per questo Gabriella Salvini Porro, presidente della Federazione Alzheimer Italia, punta più sul to care che sul to cure. Sul mettere la persona al centro, non la malattia: «Non c?è malattia più soggettiva di questa. Non si tratta tanto di misurare parametri, ma di osservare esperienze. Per questo chiediamo che le Uva, le Unità di valutazione Alzheimer, non si limitino a erogare farmaci, ma diventino centri di riferimento per le famiglie a qualsiasi stadio della malattia, che diventino centri erogatori di servizi». Tutto sulle famiglie Servizi sociosanitari, non sociali. Perché altrimenti il costo per le famiglie sarebbe eccessivo. Pubblici, perché la salute è un diritto. Il nervo scoperto, in Italia, è la rete dei servizi. La diagnosi c?è, anche se persistono differenze vistose da un centro all?altro: ci sono posti dove riescono a fare una diagnosi a sei mesi dalla comparsa dei primi sintomi, e altri dove la diagnosi arriva tardi, solo dopo due anni. «Non è detto che tutti devono fare tutto», sottolinea il professor Frisoni. «Potrebbero esserci un paio di centri in ogni regione specializzati nelle diagnosi, e gli altri dedicarsi al follow up. Il problema è che le Uva sono nate senza nessuna certificazione del servizio da parte delle Regioni, mentre servirebbe fare formazione ad hoc, valutare i centri, standardizzare i servizi secondo protocolli precisi. E ricordando che in un centro che si occupa di Alzheimer non può mancare il counselling famigliare». Otto malati su dieci, in Italia, vivono in famiglia. Vuol dire 35mila euro all?anno, fatiche e dolore esclusi. A Pronto Alzheimer, la linea telefonica della Federazione Alzheimer, chiamano 7mila persone l?anno, trenta al giorno. Chiedono informazioni sulla malattia, sui centri a cui rivolgersi, cercano un centro diurno o un posto per il ricovero: non esiste nessun registro nazionale, nessuna mappa dei servizi. Durante il progetto Cronos, chiuso nel 2003, le Uva censite erano più di 500, ma oggi nessuno sa quante ne siano rimaste. Federazione Alzheimer sta lavorando ad una mappa: «Chiediamo al ministro Turco un piano obiettivo. Materiale ce n?è, dalla Commissione Alzheimer ai Piani Alzheimer regionali. L?importante è capire che non bastano i livelli essenziali di assistenza, servono nuclei ad hoc. Altrimenti questa bomba ci esploderà tra le mani».


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